dell'Avv. Fabrizio Carta
Il Tribunale di Oristano, con la sentenza in oggetto, ha stabilito l’illegittimità della successione di contratti a tempo determinato nella pubblica amministrazione.
E’ possibile visualizzare come file pdf il testo della sentenza in fondo alla pagina. Di seguito il commento.
La violazione dell’art. 36 del d.lgs. 165/2001 e le sue conseguenze.
1) Premessa.
Di recente diffusione in giurisprudenza sono le decisioni sulla tematica del precariato all’interno della pubblica amministrazione ed in particolare modo sul problema dell’illegittimità di successioni quasi infinite di rapporti a tempo determinato con la pubblica amministrazione volti a mascherare un rapporto a tempo indeterminato con i medesimi soggetti.
Particolarmente rilevante, anche per la sua diffusione sociale, ad esempio è il caso dei c.d. precari nella scuola.
2) Sull’illegittima successione dei contratti a tempo determinato.
L’articolo 36 del d.lgs. n. 165/2001 impone che le pubbliche amministrazioni assumano esclusivamente con contratti di lavoro a tempo determinato, salve esigenze temporanee ed eccezionali.
Precisa l’ultimo comma di tale disposizione che “in ogni caso, la violazione di disposizioni imperative riguardanti l’assunzione o l’impiego di lavoratori, da parte delle pubbliche amministrazioni, non può comportare la costituzione di rapporti di lavoro a tempo indeterminato con le medesime pubbliche amministrazioni, ferma restando ogni responsabilità e sanzione. Il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative“.
Nella fattispecie in esame sarebbe quindi inoperante la sanzione della conversione del contratto a tempo determinato illegittimo in contratto a tempo indeterminato.
Secondo un’interpretazione perlopiù non condivisa v’è chi ritiene la norma in esame superata (abrogata) o comunque in contrasto con principi comunitari e/o principi costituzionali.
Secondo una prima ricostruzione, la norma in esame dovrebbe considerarsi superata (abrogata) dal d.lgs. n. 368/2001 (nuova norma generale in materia di contratti a termine) il cui articolo 10, nell’indicare le ipotesi escluse dal proprio campo di applicazione, non prevede il settore del pubblico impiego.
Infatti, secondo tale tesi, al di fuori dell’ipotesi di abrogazione esplicita, una legge può essere abrogata da una norma posteriore o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti, oppure perché la nuova legge regola l’intera materia già regolata dalla precedente.
Esclusa quest’ultima ipotesi, si tratta di stabilire se l’articolo 36 d.lgs. n. 165/2001 sia del tutto incompatibile con il successivo d.lgs.n. 368/2001.
La giurisprudenza dominante esclude un’incompatibilità tale da dedurne l’abrogazione dell’articolo 36 del T.U. 165/2001: in realtà quest’ultima norma, circoscritta ad un determinato settore, si pone come norma assolutamente peculiare ed in quanto tale specifica rispetto alla più generale normativa successiva (che se avesse inteso abrogare la norma in questione, trattandosi di un principio in vigore nel nostro ordinamento fin dal 1993, lo avrebbe di certo fatto in modo esplicito con l’articolo 11).
La specialità della disciplina del pubblico impiego, peraltro discenderebbe direttamente dall’art. 2, comma 2, del D. lgs n. 165/2001, secondo cui “i rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto“.
Sotto altro profilo si è anche ritenuto che l’articolo 36 d.lgs. n. 165/2001 si ponga in contrasto con la direttiva comunitaria n. 70/99, con conseguente onere di disapplicazione da parte del giudice.
La tesi tuttavia non trova condivisione in giurisprudenza.
La direttiva n. 70/99 si muove sotto due differenti profili, entrambi indicati al punto 14 delle premesse: la garanzia dell’applicazione del principio di non discriminazione, nonché la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato. Ciò significa che gli obiettivi perseguiti dalla direttiva in esame erano la non discriminazione tra lavoratori a tempo indeterminato e lavoratori a tempo determinato nonché il divieto di abuso di proroghe delle assunzioni a tempo determinato.
D’altra parte, l’accordo 18.3.1999 stipulato dalle organizzazioni intercategoriali che la direttiva attua, prevedeva espressamente quale obiettivo quello di “stabilire un quadro generale che garantisca la parità di trattamento ai lavoratori a tempo determinato“.
Ancora più chiara è la clausola n. 1 dell’accordo in questione, in virtù della quale l’obiettivo degli stati membri deve essere:
“a) migliorare la qualità del lavoro a tempo determinato garantendo il rispetto del principio di non discriminazione;
b) creare un quadro normativo per la prevenzione degli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato“.
Il successivo punto 5) specifica quali siano le forme di tutela che gli stati devono assicurare:
“Per prevenire gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali a norma delle leggi, dei contratti collettivi e della prassi nazionali, e/o le parti sociali stesse, dovranno introdurre, in assenza di norme equivalenti per la prevenzione degli abusi e in un modo che tenga conto delle esigenze di settori e/o categorie specifici di lavoratori, una o più misure relative a:
a) ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo dei suddetti contratti o rapporti;
b) la durata massima totale dei contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi;
c) il numero dei rinnovi dei suddetti contratti o rapporti“.
Ancora una volta emerge chiaramente che la direttiva affronta esclusivamente il profilo dell’utilizzo distorto ed abusivo di proroghe e/o rinnovi, senza affrontare in alcun modo il problema generale delle conseguenze dell’illegittimo ricorso all’assunzione a tempo determinato.
Anzi, il successivo comma 2 del punto 5) rimette espressamente agli Stati membri l’individuazione delle ipotesi di conversione dei contratti a tempo determinato in contratti o rapporti a tempo indeterminato.
In quest’ottica la giurisprudenza ha ritenuto legittima e compatibile la scelta operata dal legislatore italiano per il pubblico impiego.
In primo luogo in quanto la sopra citata clausola n. 5.2 non onera gli Stati membri alla previsione del meccanismo di conversione come sanzione dell’abuso, ma rimette la scelta del meccanismo sanzionatorio alla discrezionalità degli stessi, rendendo così l’opzione della conversione dei rapporti a tempo determinato una mera facoltà.
Le conclusioni sostenute trovano infine conforto nella pronunce della Corte di Giusitizia Europea del 7 settembre 2006 su analoghe questioni (cause C – 53/04 e C – 180/04): la Corte, affrontato il rapporto tra divieto di conversione dei contratti a tempo determinato nel pubblico impiego e normativa comunitaria, ha stabilito che “l’Accordo quadro sul lavoro a tempo determinato, concluso il 18.3.1999 (in allegato alla Direttiva 70/99), deve essere interpretato nel senso che non osta, in linea di principio, ad una normativa nazionale che esclude, in caso di abuso derivante dall’utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato da parte di un datore di lavoro rientrante nel settore pubblico, che siano trasformati in contratti o rapporti di lavoro a tempo indeterminato, qualora tale normativa contenga altra misura effettiva destinata ad evitare e, se del caso, sanzionare un utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato“.
Secondo la Suprema Corte Europea, il divieto di conversione dei contratti a tempo determinato illegittimamente stipulati è pertanto ragionevole qualora l’ordinamento interessato preveda altri istituti diretti a prevenire e punire eventuali abusi.
La ragionevolezza, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, è allora garantita dalla previsione contenuta nell’articolo 36 t.u. n. 165/2001 secondo cui “il lavoratore interessato ha diritto al risarcimento del danno derivante dalla prestazione di lavoro in violazione di disposizioni imperative“.
Pertanto, alla luce di quanto esposto, è legittima l’azione del lavoratore volta, in tali casi, a chiedere il risarcimento del danno (cfr. i principi di diritto enucleati dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 392/2012)1
3) Natura del risarcimento del danno.
La norma in esame configura un’ipotesi risarcitoria di carattere generale, astrattamente idonea a reprimere eventuali abusi.
Come ricordato, l’articolo 36 comma 2 prevede a favore del lavoratore illegittimamente assunto a tempo determinato un risarcimento del danno subito per la prestazione svolta in violazione di norme imperative.
Bisogna chiedersi di che tipo di danno tratti la norma e che regime anche probatorio si applichi.
La Corte di Giustizia europea, nella sentenza n. C – 53 / 04, ha precisato che le sanzioni previste dall’ordinamento interno devono rivestire un carattere sufficientemente effettivo e dissuasivo (punto 51), non devono rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (punto 52), devono presentare garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso (punto 53).
La Corte conclude (punti 53 e 54) ritenendo in astratto rispondente a tali requisiti la previsione risarcitoria contenuta nell’articolo 36 d. lgs. n. 165/2001, ma con l’importante precisazione che “spetta al giudice del rinvio valutare in quale misura le condizioni di applicazione nonché l’effettiva attuazione dell’articolo 36 ne fanno uno strumento adeguato a prevenire e sanzionare l’utilizzo abusivo di una successione di contratti a tempo determinato“2.
In sostanza sembrerebbe che, trattandosi di sanzione risarcitoria, applicando rigorosamente il principio dell’onere probatorio in tema di risarcimento del danno, la previsione dell’articolo 36 comma 2 t.u. n. 165/2001 non presenterebbe in alcun modo il “carattere sufficientemente effettivo e dissuasivo” richiesto dalla Corte Europea, né garantirebbe “effettive ed equivalenti forme di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso” (confronta sul punto sentenza del Tribunale di Trapani, pubblicata il 30/01/2007).
Se infatti si considera che la prova di un danno effettivo subito dal lavoratore illegittimamente assunto a termine è oltre modo una “probatio diabolica” (il lavoratore dovrebbe dare prova di effettiva perdita di altre occasioni lavorative, di impossibilità di accedere al credito bancario con conseguente mortificazione di scelte di vita), seguendo la tesi qui non condivisa, il meccanismo risarcitorio rimarrebbe di fatto inapplicabile, quale astratta e vuota previsione normativa necessaria al rispetto – meramente formale – delle indicazioni comunitarie.
Ma tale conclusione cozza con quanto stabilito dalla Corte Europea che, seppure giudichi in astratto potenzialmente idoneo il meccanismo risarcitorio previsto dall’articolo 36, nello stabilire il principio di diritto (e in numerosi altri passaggi) parla espressamente di strumento sanzionatorio.
Si deve peraltro considerare che nell’ipotesi di rapporto con un datore di lavoro privato, in caso di illegittimo ricorso al contratto a termine le conseguenze sarebbero state di due tipi: la conversione del rapporto in tempo indeterminato ed il pagamento (stante la fictio juris di continuità del rapporto di lavoro tra le parti) delle retribuzioni fino all’effettiva reintegrazione.
Considerato che la Corte di Giustizia ha precisato che lo strumento di tutela alternativo alla conversione deve essere tale da non creare illegittime discriminazioni e deficit di tutela il criterio individuato da parte della giurisprudenza (differenza tra quanto il lavoratore ha percepito e quanto avrebbe percepito se fosse stato assunto a tempo indeterminato, includendo nel calcolo ogni posta utile, ivi compresi gli scatti di anzianità, ad esempio si veda sent. Trib. di Oristano, sez. Lav. n. 285/2011) appare ragionevole, garantendo una tutela non eccessivamente dissimile tra pubblico impiego e lavoratori del settore privato.
Un simile criterio appare adeguato alle indicazioni comunitarie e pienamente rispettoso delle esigenze e peculiarità del pubblico impiego, peculiarità tali da legittimare – secondo la stessa giurisprudenza comunitaria – un trattamento almeno in parte differenziato: in caso di datori di lavoro privati, infatti, le mensilità di retribuzione sarebbero state in ogni caso maggiori, in quanto dovute fino all’effettiva reintegra del lavoratore (momento di regola successivo la data della pronuncia della sentenza).
Il criterio appare inoltre coerente anche sotto altro punto di vista, e cioè per quanto riguarda la facile obiezione relativa al difetto di prova del danno subito.
Va infatti osservato che il danno subito dal lavoratore non è conseguente alla sola circostanza dell’illegittimo ricorso all’assunzione a termine, quanto piuttosto del binomio illegittimo contratto – divieto di conversione: la Corte di Giustizia della Comunità Europea ha infatti posto la previsione di uno strumento alternativo (il risarcimento del danno) in connessione diretta con il divieto di conversione in rapporto a tempo indeterminato.
Ciò significa che lo strumento risarcitorio – sanzionatorio cui fa riferimento la Corte è necessario non solo in relazione all’illegittimità di un contratto, ma anche per ovviare al divieto di conversione dello stesso.
Partendo da tale presupposto, poiché di regola in caso di illegittimo ricorso al contratto a tempo determinato la sanzione prevista è la conversione del rapporto con conseguente diritto alle retribuzioni maturate, in caso di divieto di conversione il danno subito dal lavoratore è costituito, anche, dalla perdita di tali retribuzioni.
Peraltro sul punto e sulla natura sanzionatoria della violazione di un divieto imposto da norma imperativa3 appare concorde la giurisprudenza.
3.1) La recente presa di posizione della Corte di Cassazione.
Deve precisarsi che tutte le considerazioni svolte trovano oggi l’avallo anche da parte della Corte di Cassazione, che, nella materia de qua, ha esercitato la propria funzione nomofilattica enunciando un chiaro principio di diritto: I compiti di nomofilachia devoluti a questa Corte di Cassazione inducono ad enunciare – ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 1, ed in sintesi di quanto statuito nel corso della motivazione – i seguenti principi diritto:
- il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 36, nel riconoscere il ricorso al contratto a termine e ad altre forme negoziali flessibili nel rapporto di lavoro pubblico, ha valorizzato il ruolo della contrattazione collettiva con l’attribuire alla stessa una più accentuata rilevanza rispetto al passato, ma nello stesso tempo ha rimarcato l’innegabile differenza esistente tra forme contrattuali nell’area del pubblico impiego seppure privatizzato ed in quella del lavoro privato. Ne consegue che la suddetta norma si configura come speciale in ragione di un proprio e specifico regime sanzionatorio, che – per escludere la conversione in un contratto a tempo indeterminato e con il risultare funzionalizzato a responsabilizzare la dirigenza pubblica nel rispetto delle norme imperative in materia nonchè a risarcire i danni che il lavoratore dimostri di avere subito per la violazione delle suddette norme – risulta alternativo a quello disciplinato dal D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 5, escludendone in ogni caso l’applicazione.
- La giurisprudenza costante della Corte di giustizia europea – di recente ribadita da una ulteriore pronunzia (Corte giust. 1 ottobre 2010, causa C-3/10, Affatato) – porta ad escludere nell’area del pubblico impiego seppure privatizzato l’applicazione del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 368, art. 5, dal momento che nel nostro assetto ordinamentale si rinviene, con le disposizioni di cui al D.Lgs. 5 settembre 2001, n. 165, art. 36, un sistema sanzionatorio capace – in ragione di una più accentuata responsabilizzazione dei dirigenti pubblici e del riconoscimento del diritto al risarcimento di tutti i danni in concreto subiti dal lavoratore – di prevenire, dapprima, e sanzionare, poi, in forma adeguata l’utilizzo abusivo da parte della pubblica amministrazione dei contratti o dei rapporti di lavoro a tempo determinato” (Cass. Sez. lavoro, sentenza n. 392 del 13/01/2012).
Nella stessa pronuncia la Corte precisa che il risarcimento dei danni scaturenti dal rapporto lavorativo – quale ad esempio il danno biologico o quello di perdita di chance – va provato in giudizio con tutti i mezzi consentiti dall’ordinamento e, quindi, anche attraverso la prova per presunzioni.
Peraltro nulla osta al Tribunale la liquidazione del danno anche secondo altri criteri e in via equitativa4, posto che la domanda concerne l’accertamento dell’illegittimità dei contratti a termine stipulati con conseguente applicazione della sanzione, il risarcimento, da liquidarsi eventualmente anche equitativamente. A questo proposito si segnala un interessante pronuncia sulla questione del Tribunale di Prato (sentenza n. 61 del 15/03/2012)5.
Da ultimo il Tribunale di Trapani, sez. Lavoro, con sentenza n. 90 del 15/02/2013 ha liquidato un consistente risarcimento ad un “precario della scuola”, comprendendo nel calcolo anche il lucro cessante, ivi compresi i mancati scatti
d’anzianità, stipendi estivi non corrisposti per gli anni passati e, soprattutto, per quelli futuri fino alla pensione.
Avv. Fabrizio Carta
1.
2 Tale conclusione è stata assai di recente asseverata dalla C.G.E, che, nell’ordinanza del 4 ottobre 2010 (resa nella causa C-3/10 – Franco Affatato e/Azienda Sanitaria Provinciale di Cosenza) – riprendendo alcuni suoi precedenti arresti, ha definitivamente chiarito che: – “affinché una normativa nazionale che vieta in via assoluta, nel settore pubblico, la trasformazione in contratto di lavoro a tempo indeterminato di una successione di contratti a tempo determinato possa essere considerata conforme all’accordo quadro, l’ordinamento giuridico interno dello Stato membro interessato deve prevedere, in tale settore, un’altra misura effettiva per evitare, ed eventualmente sanzionare, l’utilizzo abusivo di contratti a tempo determinato stipulati in successione” (punto 42);
- “la clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro impone agli Stati membri, onde prevenire l’utilizzo abusivo di una successione di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato, l’adozione effettiva e vincolante di almeno una delle misure enumerate in tale disposizione, qualora il diritto nazionale non preveda già misure equivalenti” (punto 43);
- “le misure così elencate nella citata clausola 5, punto 1, lett. a)-c), in numero di tre, attengono, rispettivamente, a ragioni obiettive per la giustificazione del rinnovo di tali contratti o rapporti dì lavoro, alla durata massima totale degli stessi contratti o rapporti di lavoro successivi ed al numero dei rinnovi di questi ultimi‘ (punto 44);
- “quando, come nel caso di specie, il diritto dell’Unione non prevede sanzioni specifiche nel caso in cui siano stati comunque accertati abusi, spetta alle autorità nazionali adottare misure che devono rivestire un carattere non soltanto proporzionato, ma altresì sufficientemente effettivo e dissuasivo per garantire la piena efficacia delle norme adottate in attuazione dell’accordo quadro” (punto 45);
- “benché, in mancanza di una disciplina dell’Unione in materia, le modalità di attuazione di siffatte norme attengano all’ordinamento giuridico interno degli Stati membri in virtù del principio dell’autonomia procedurale di questi ultimi, esse non devono essere tuttavia meno favorevoli di quelle che disciplinano situazioni analoghe di natura interna (principio di equivalenza), né rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico comunitario (principio di effettività)” (punto 46);
- “quando si sia verificato un ricorso abusivo a una successione di contratti di lavoro a tempo determinato, si deve poter applicare una misura che presenti garanzie effettive ed equivalenti di tutela dei lavoratori al fine di sanzionare debitamente tale abuso ed eliminare le conseguenze della violazione del diritto dell’Unione. Infatti, secondo i termini stessi dell’art. 2, primo comma, della direttiva 1999/70, gli Stati membri devono “prendere tutte le disposizioni necessarie per essere sempre in grado di garantire i risultati prescritti dalla [detta] direttiva“(punto 47)”.
3Si confronti sul punto la sentenza della Corte d’Appello di Catania del 9/01/2012, in Foro it., 2012, 4, I, 1241: “posta la conformità ai principi comunitari della sanzione risarcitoria prevista dall’art. 36 d.lg. n. 165 del 2001, il risarcimento del danno derivante dall’illegittima apposizione del termine, lungi dal riguardare le conseguenze successive alla mancata instaurazione di un contratto di lavoro a tempo indeterminato, è conseguenza intrinseca all’accertata violazione di legge, al cospetto dell’affidamento nella stabilità del rapporto e della sussistenza d’intervalli di pochi giorni tra un contratto a termine ed il successivo, tale da determinare un sostanziale vincolo di disponibilità, perdurato per quasi un ventennio”.
4 A tal proposito si rammenta il noto principio giurisprudenziale per cui “la valutazione di cui all’art. 1226 c.c. consiste nella possibilità attribuita al giudice di ricorrere, anche d’ufficio, a criteri equitativi per supplire all’impossibilità della prova del danno risarcibile nel suo preciso ammontare. Per simile valutazione è sufficiente che il giudice dia l’indicazione di congrue, anche se sommarie, ragioni del processo logico in base al quale la ha adottata, restando così incensurabile, in sede di legittimità, l’esercizio di questo potere discrezionale” (Cass. Civ. sent. n. 21246 del 29/11/2012).
5 Afferma il Giudice: Il danno, dunque, non sta nella perdita di un posto di lavoro, al quale, secondo il vigente ordinamento, il precario non avrebbe mai avuto comunque diritto, bensì negli effetti pregiudizievoli derivanti dall’abusiva successione di una serie di contratti a tempo determinato; danno questo che il legislatore nazionale ha, con il recente art. 32, comma 5, l. n. 183 del 2010, forfettizzato tra un minimo ed un massimo, da un lato, sollevando il lavoratore degli oneri di allegazione e probatori afferenti all’esistenza ed alla quantificazione di un danno risarcibile e, dall’altro, consente di attribuire un risarcimento di entità economica più rilevante a chi è stato impiegato per più tempo con contratti a tempo determinato.
Del resto, l’art. 32, comma 5, l.n. 183 del 2010 è norma applicabile in via generale quale sanzione all’ipotesi di illegittima apposizione del termine o di impiego abusivo del lavoro a tempo determinato, per cui pare corretto ancorare le fondamenta del meccanismo interpretativo analogico alla disposizione che, nel vigente ordinamento, disciplina la situazione maggiormente assimilabile a quella oggetto d’esame. E’ bensì vero che l’art. 32, cit., consente la conversione, che invece l’art. 36 del d. legs. n. 165 del 2001 e l’art. 19 d.l. n. 98 del 2011 vietano espressamente. Ciò, però, non esime, a parere delle scrivente, dall’applicazione del risarcimento nella misura forfettizzata dalla legge n. 183 del 2010, per l’assorbente ragione che il pubblico dipendente, a differenza del lavoratore privato, non ha, legalmente, diritto alla conversione o trasformazione del rapporto, onde, sotto questo specifico profilo, non può essere titolare di alcun diritto risarcitorio. La richiamata giurisprudenza comunitaria, infatti, nel fare espressamente salva la normativa italiana contenuta nell’art. 36 del d. legs. n. 165 del 2001, si limita a richiedere al nostro ordinamento di inserire misure effettive per porre argine alla successione di contratti a tempo determinato con la stessa persona e per dissuadere le pubbliche amministrazioni dall’impiego abusivo del lavoro a termine; dunque, il danno consegue dalla mancanza, nel sistema vigente, di un argine normativo nella direzione imposta dal diritto comunitario e non nella mancata stabilizzazione del rapporto di lavoro. Resta, quindi, confermata la legittimità, anche rispetto alle direttive imposte dalla legislazione comunitaria, dall’applicazione, in via analogica, dell’art. 32, comma 5, della legge n. 183 del 2010, commisurando l’entità del risarcimento del danno, in particolare, alla durata del periodo complessivo di precariato, eccedente i 36 mesi”.