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10 giugno, 2013

COMMENTO ALLA SENTENZA DELLA CORTE COSTITUZIONALE N. 272/2012 IN TEMA DI MEDIAZIONE OBBLIGATORIA

Prof. Bruno Troisi



La sentenza della Corte Costituzionale n. 272/2012

In tema di mediazione obbligatoria

(nelle riflessioni dei primi commentatori)

 

Com’è noto, la Corte costituzionale, con la sentenza 6 dicembre 2012, n. 272, si è pronunciata sulle questioni di costituzionalità sollevate da ben otto ordinanze di rimessione, in merito alla mediazione obbligatoria prevista dall’art. 5, comma 1, D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28.

L’alto numero di questioni sollevate, soprattutto in considerazione del breve arco temporale (un anno circa), testimonia, in primo luogo, le incertezze e i contrasti riguardanti il nuovo istituto, nei cui confronti persiste un diffuso scetticismo, se non addirittura una ostile diffidenza, soprattutto da parte del mondo degli operatori del diritto, per i quali proprio il carattere dell’obbligatorietà è stato l’elemento di maggiore criticità (la stessa Corte non ha mancato di sottolineare, in un passaggio della sentenza, che “i rapporti sostanziali dedotti in causa concernono profili attinenti alla mediazione nel processo civile, che possono anche riguardare interessi professionali della classe forense o delle Camere di Commercio, ma concernono più in generale le posizioni che le parti intendono azionare nel processo”).

Peraltro, delle numerose questioni sollevate, la Corte ha esaminato e accolto la sola questione, ritenuta pregiudiziale, relativa al difetto di delega da parte del Parlamento al Governo, relativamente alla obbligatorietà del tentativo di mediazione in determinate materie, con riferimento agli artt. 76 e 77 Cost.; e ha considerato assorbite tutte le altre questioni.

Tuttavia, se è mancata una pronuncia sui profili sicuramente più interessanti posti dalle questioni assorbite, la Corte ha fatto un ampio uso della dichiarazione di incostituzionalità consequenziale, facendo venir meno tutta una serie di norme dello stesso D.Lgs. n. 28/2010, diverse ed ulteriori rispetto all’art. 5, comma 1.

Per quanto riguarda il merito della decisione, la Corte ha concluso nel senso che né gli atti dell’Unione europea richiamati dalla legge delega 69/2009, né la stessa legge delega (segnatamente, nell’art. 60), consentissero di ritenere incluso, tra i principi e i criteri direttivi ivi contemplati, la previsione del carattere obbligatorio della mediazione finalizzata alla conciliazione.

La Corte costituzionale ha giudicato che, pur nel favor dimostrato verso l’istituto della mediazione, come strumento idoneo a fornire una soluzione extragiudiziale conveniente e rapida delle controversie in materia civile e commerciale, il diritto dell’Unione non imponga e nemmeno consigli l’adozione del modello obbligatorio, limitandosi a stabilire che resta impregiudicata la legislazione nazionale che quell’obbligatorietà eventualmente preveda (in applicazione del principio di sussidiarietà).

E ciò, nonostante che la Corte di giustizia, con la pronuncia del 18 marzo 2010, resa a proposito del tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di telecomunicazioni, avesse ritenuto che la previsione di un tentativo facoltativo di conciliazione, anziché di uno obbligatorio, non potesse rappresentare uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione degli obiettivi perseguiti, trattandosi, ad avviso della Corte costituzionale, di un rilievo, quello del Giudice dell’Unione, che «non può costituire un precedente, sia perché si tratta di un obiter dictum», sia perché la sentenza in questione è intervenuta «su una procedura conciliativa concernente un tipo ben circoscritto di controversie (quelle in materia di servizi di comunicazioni elettroniche tra utenti finali e fornitori di tali servizi), là dove la mediazione di cui si discute riguarda un numero rilevante di vertenze, che rende non compatibili le due procedure anche per le differenze strutturali che le caratterizzano».

La pronuncia in questione ha, dunque, condiviso l’impostazione dei giudici rimettenti, concludendo nel senso dell’illegittimità costituzionale, per eccesso di delega (rectius, eccesso dalla delega), della opzione per un modello di mediazione di carattere obbligatorio, ritenendo di non poter desumere l’obbligatorietà da nessuna disposizione della legge delega. Un modello che, in quanto destinato ad operare per un numero consistente di controversie, la Corte ha ritenuto di non giustificare, sempre sotto il profilo dell’eccesso dalla delega, così come aveva fatto per la condizione di procedibilità, all’epoca prevista dal codice di rito in materia di lavoro, per la quale, invece, il giudice delle leggi, nel giudicare legittimo il modello obbligatorio, aveva valorizzato la circostanza che la messa a punto di strumenti idonei ad agevolare la composizione stragiudiziale delle controversie apparisse «un momento essenziale per la riuscita della riforma» e rappresentasse il coerente sviluppo di un principio già presente nello specifico settore.

Come si è detto all’inizio, se è mancata una pronuncia sui profili sicuramente più interessanti posti dalle questioni assorbite, di cui poi diremo, la Corte ha fatto un ampio uso della dichiarazione di incostituzionalità consequenziale.

In particolare, ha dichiarato la illegittimità delle altre norme del d.lgs. n. 28 del 2010 per le parti che richiamano o presuppongono la obbligatorietà della mediazione, ridisegnando così alcuni profili della disciplina tra i quali, particolarmente, l’incidenza sul rapporto tra avvocato e cliente ed i rapporti tra procedura e processo (ma di questi profili, estremamente complessi, non possiamo dar conto in questa sede).

La mediazione è, così, restituita, dalla Corte costituzionale al suo ambito naturale: quello di uno strumento negoziale, che si fonda su valutazioni di opportunità e convenienza, le quali non devono essere condizionate dal timore di possibili ripercussioni negative nell’eventuale successivo episodio contenzioso.

In questo quadro, acquista particolare rilievo la figura della mediazione delegata.

La possibilità che le parti addivengano ad una composizione negoziale della lite su invito del giudice assume, infatti, dopo l’intervento della Corte costituzionale, una particolare centralità, sulla quale occorrerà riflettere, non appena si sarà smorzata l’eco del dibattito che la pronuncia della Corte ha suscitato. In particolare, si dovranno analizzare i modi in cui mediazione e processo si dovranno raccordare, non solo per quanto riguarda l’avvio delle parti in mediazione, ma anche, e soprattutto, per quanto attiene all’opportunità che la definizione della lite si mantenga sul piano stragiudiziale (anche per le peculiarità al verbale di conciliazione, rispetto a quelle che presenta il verbale della conciliazione raggiunta dinanzi al giudice), o invece si riporti nell’alveo del processo; e, ancora, se la composizione bonaria della controversia debba tradursi, nella prospettiva del giudizio, in una declaratoria di cessazione della materia del contendere, o se per le parti sia più conveniente, anche da un punto di vista economico, l’abbandono della lite, col meccanismo dell’art. 309 c.p.c. (mancata comparizione all’udienza).

Come si è detto all’inizio, l’accoglimento della questione concernente l’eccesso di delega ha prodotto l’assorbimento delle altre questioni di costituzionalità proposte alla Corte. Si discute, in proposito, se esse restino impregiudicate per l’eventualità che il legislatore dovesse reintrodurre delle fattispecie di obbligatorietà.

Su alcune di tali questioni, a mio avviso, è opportuno soffermarsi perché dimostrano un rilevante e pericoloso fraintendimento della mediazione.

Il primo e principale fraintendimento, riguardante il tema della competenza del mediatore – tema che, da sempre, tocca un nervo scoperto – è dovuto, come è stato sottolineato dai primi commentatori della decisione in questione, ad un salto logico nel sillogismo: la mediazione è alternativa alla giurisdizione; in sede giurisdizionale sono indispensabili competenze giuridiche; il mediatore deve essere un giurista. Questo è quanto affermato nel ricorso del TAR Lazio e ribadito nell’intervento in causa dell’Organismo Unitario dell’Avvocatura.

Ancor più grave appare, poi, il fraintendimento in cui è incorso il Tribunale di Torino, secondo il quale «il procedimento di media conciliazione è paragonabile ad un arbitrato irrituale».

Orbene, l’alternatività della mediazione rispetto alla giurisdizione non significa che tutte le caratteristiche della giurisdizione debbano essere presenti anche nella mediazione. Citando un icastico parallelismo operato da uno dei primi commentatori, sarebbe come dire: l’autobus è alternativo al tram; il tram viaggia sui binari; dunque l’autobus ha necessità dei binari. Analogamente, la valenza negoziale del lodo irrituale non significa che la mediazione abbia le stesse caratteristiche dell’arbitrato irrituale sol perché l’esito di ambedue è un negozio.

In realtà, se il risultato della mediazione è alternativo al risultato della giurisdizione, il mezzo per arrivare alla risoluzione della controversia è intrinsecamente diverso: nella giurisdizione (e nell’arbitrato) il diritto sostanziale è il metro per dare un contenuto alla decisione e il rispetto del diritto processuale costituisce la condizione di validità della decisione. Nella risoluzione negoziale delle controversie, né l’uno né l’altro sono elementi rilevanti: da un lato, infatti, il contenuto dell’accordo si fonda su una valutazione di convenienza; dall’altro, il procedimento per giungere al testo dell’accordo, che poi le parti approvano, non costituisce condizione di validità dell’accordo stesso.

E` vero che, nella negoziazione volta alla risoluzione di una controversia, fra i fattori rilevanti per la valutazione di convenienza vi è anche la fondatezza delle rispettive pretese. Tuttavia, ciò non impone che il mediatore sia esperto di diritto più di quanto impone che il mediatore di compravendite immobiliari sia esperto di diritto o di tecniche costruttive o impiantistiche. Come nella compravendita immobiliare l’acquirente che voglia acquisire elementi relativi allo stato del bene lo farà esaminare da un tecnico di sua fiducia; così, nella mediazione, la parte che voglia acquisire elementi relativi alla fondatezza della sua e dell’altrui pretesa si farà assistere da un avvocato.

Si è anche affermato che la necessità di una competenza giuridica sta nel fatto che, diversamente da quel che accade con qualunque altro contratto, è il giudice che dovrebbe dettare la regula iuris del caso concreto, sicché con la mediazione si rinuncia a quella che è una delle manifestazioni più alte del potere pubblico. Inoltre, che l’accordo raggiunto in mediazione è particolarmente ‘pericoloso’, perché ha la forza della sentenza, in quanto è sia titolo esecutivo sia titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, cosa che i contratti di regola non sono.

Entrambi i rilievi sono in conferenti, nel senso che colgono due punti cruciali del problema, ma nessuno di essi è centrato, rispetto al tema di cui si discute. Non il primo, perché, ad esempio, la transazione (che è uno dei possibili contenuti dell’accordo raggiunto in mediazione) serve, sì, a superare un conflitto, ma non è volta a rimuovere l’incertezza, come la sentenza, bensì, semmai, a dettare la nuova regola per il rapporto. Nella transazione, infatti, diversamente da quel che avviene col provvedimento giurisdizionale, il profilo dell’accertamento è estraneo all’attività delle parti, e ciò che ha rilievo non è l’interesse alla verità della posizione, ma l’atto di autonomia con il quale la lite viene risolta o prevenuta.

Ma neppure il secondo rilievo giustifica le perplessità avanzate rispetto alla figura del mediatore, sol che si osservi che l’accordo raggiunto in seno al tentativo di conciliazione è titolo esecutivo come sono titoli esecutivi le cambiali, gli assegni bancari e gli altri titoli stragiudiziali che non presuppongono alcuna verifica della bontà delle posizioni delle parti, e che pure consentono di mettere in moto la macchina esecutiva, imponendo al destinatario della pretesa di far valere le proprie ragioni in seno al giudizio di opposizione all’esecuzione. Quanto all’essere titolo per l’iscrizione di ipoteca giudiziale, non vi è in ciò una parificazione del verbale alla sentenza, ma semplicemente l’applicazione di un principio contenuto già nel d.lgs. 5/2003, che il legislatore delegato aveva l’obbligo di estendere alla materia delle controversie civili e commerciali, in virtù della lett. s) del comma 3 dell’art. 60 l. 69/2009 (oltre che del richiamo contenuto nella lett. c) del medesimo comma).

E l’ampliamento dei titoli per l’iscrizione di ipoteca giudiziale oltre a quel che consente l’art. 2818 c.c., che limita il novero degli stessi ai provvedimenti del giudice, si inserisce nella medesima tendenza dell’ordinamento che vuole che sia titolo per l’iscrizione di ipoteca il verbale dell’accordo raggiunto dinanzi al consulente tecnico, nominato ex art. 696- bis c.p.c., che certamente non è un esperto in materie giuridiche.

Insomma, non sembra che la possibile conformazione dei diritti soggettivi coinvolti dalla mediazione, che l’accordo produce, sia diversa da quella che può determinarsi per effetto di un qualunque contratto (per esempio, della transazione), in cui gli effetti, come nella mediazione, sono voluti dalle parti, e l’assistenza alle parti, come nella mediazione, fino ad oggi non è stata ritenuta necessaria dall’ordinamento. Né sembra che la previsione dell’efficacia sul piano esecutivo dell’accordo avrebbe dovuto implicare un controllo più penetrante, rispetto a quello riservato al giudice dell’omologa, dal momento che i titoli esecutivi stragiudiziali non sono di norma soggetti a verifiche giudiziali di alcun tipo; e tra di essi ve ne sono alcuni, come la cambiale, che non hanno neppure quelle caratteristiche che, nell’atto pubblico o nella scrittura privata autenticata, possono far immaginare maggiori garanzie in ordine all’esistenza dell’obbligo che si porta ad esecuzione (la cambiale, infatti, non è altro che una scrittura privata non autenticata, sia pur soggetta a particolari requisiti di forma).

Il secondo fraintendimento è riconducibile alla mentalità del giudice amministrativo, secondo il quale l’esecutività si identifica con l’imperatività. Afferma, infatti, il TAR Lazio che la necessità della competenza tecnico-giuridica del mediatore deriva dall’efficacia di titolo esecutivo che può acquisire l’accordo omologato. Il giudice amministrativo è abituato a individuare l’oggetto dell’esecuzione nel provvedimento, e non – come, invece, è – nel diritto. E quindi è indotto a considerare l’efficacia esecutiva come un proprium dei provvedimenti autoritativi.

In realtà, come dimostra l’art. 474 c.p.c., l’esecutività non è una qualità propria delle sole statuizioni giurisdizionali, avendo efficacia esecutiva tutta una serie di atti che sono negoziali, e non sono quindi autoritativo-pubblicistici. In particolare, l’accordo di mediazione, ove redatto per atto pubblico o scrittura privata autenticata, è comunque esecutivo anche senza l’omologazione del giudice.

Piuttosto, merita sottolineare che il mediatore – proprio perché «esperto» in tecniche di negoziazione e non in materie giuridiche – non può essere onerato anche della redazione del contratto che risolve la controversia. Il mediatore ha il compito di far incontrare la volontà negoziale delle parti, e quindi opera sul piano dei bisogni e degli interessi: la traduzione in termini giuridici della volontà negoziale delle parti non è compito del mediatore. Si tratta, insomma, di una negoziazione assistita, in cui le parti sono sovrane dell’accordo.

Torna acconcio il paragone con il mediatore immobiliare: raggiunto l’accordo fra venditore e acquirente, non spetta certo al mediatore redigere l’atto traslativo della proprietà. Ancora una volta, se le parti vogliono, ci penseranno da sole; se non se la sentono, si faranno assistere da tecnici di loro fiducia.

Certo, la questione della qualificazione degli organismi di mediazione e dei mediatori non è di poco conto, dal momento che, pur considerando le peculiarità e il carattere informale della procedura di mediazione, basata sul rapporto fiduciario con il mediatore e sulle capacità empatiche e comunicative dello stesso, proprio al fine di garantire la migliore assistenza possibile e l’erogazione di un servizio che risponda agli standard qualitativi ottimali, è necessario garantire la professionalità degli operatori del settore, attraverso la individuazione di ben precisi criteri di accreditamento per l’esercizio delle attività ed il rispetto delle regole poste.

Un veloce riepilogo dei requisiti richiesti può risultare utile per alcune considerazioni in ordine alle ragioni delle critiche mosse alla figura del mediatore.

Per l’abilitazione alla professione di mediatore sono richiesti, oltre ai requisiti di capacità e godimento dei diritti civili, il possesso di un titolo di studio non inferiore al diploma di laurea triennale (od in alternativa l’iscrizione presso un collegio od albo professionale per un periodo di almeno quindici anni) e la frequenza di un corso di formazione di 50 ore erogato da un ente di formazione abilitato presso il Ministero; accanto ai requisiti “di ingresso”, sono poi richiesti un tirocinio assistito (partecipazione ad almeno 20 sessioni di mediazione) ed una formazione permanente (partecipazione a corsi di aggiornamento di almeno 18 ore per ogni biennio). La capacità professionale del mediatore è poi definita dal complesso di obblighi (legali e deontologici) indicati dalla normativa di settore e dai codici etici adottati dagli organismi sia in dimensione nazionale che internazionale.

Per gli organismi di mediazione, accanto a una serie di elementi che ne dimostrino la capacità logistico-organizzativa (idoneità dei locali, personale dipendente, capacità finanziaria ed adeguata copertura assicurativa), vengono in considerazione la qualificazione del responsabile, l’obbligo di indicare nel regolamento i criteri di assegnazione degli affari di mediazione e la facoltà di indicare le specializzazioni dei propri mediatori attraverso appositi elenchi; l’attività degli organismi è oggetto di valutazione da parte dei destinatari del servizio (attraverso la compilazione di apposite schede di valutazione) e di monitoraggio da parte del Ministero della Giustizia, seppur con una marcata attenzione ai profili quantitativi della stessa.

Ad una prima analisi appare chiaro come la normativa, seppur privilegiando un profilo di efficienza nella gestione dell’attività, offra, tuttavia, una serie di garanzie in ordine alla formazione dei mediatori ed alla competenza ed affidabilità degli organismi che, anche nell’ottica di una più funzionale e redditizia gestione delle proprie attività, saranno indirizzati ad effettuare le selezioni dei propri mediatori e l’assegnazione dei singoli affari di mediazione; la compresenza di mediatori con profili professionali e competenze diversificate, non necessariamente tutti di estrazione giuridica, si rivela, proprio in relazione ai caratteri della procedura, un valore aggiunto piuttosto che un indice di possibile pregiudizio per i destinatari del servizio: sul punto, appare opportuno ricordare che l’art. 1 e l’art. 8 prevedono, infatti, che in casi di particolare complessità, la mediazione possa essere svolta collegialmente da più mediatori.

Diverso è invece il profilo del controllo dell’attività da parte degli uffici e degli organi preposti: una più attenta verifica, infatti, potrebbe risultare funzionale a rafforzare la fiducia dei destinatari del servizio e degli operatori del diritto. Proprio la necessità di proporsi validamente ai destinatari del servizio di mediazione volontaria, nell’ottica di una reale funzione alternativa dell’istituto, può essere la direttrice delle politiche di qualità da parte degli organismi, particolarmente da parte di quelli privati, in una declinazione dei requisiti di “serietà” ed “efficienza”, come richiesti dal d.lgs.28/2010, indirizzati ad una affermazione delle soluzioni negoziali delle controversie come fattori di crescita del mercato e di garanzia nei rapporti tra privati.

Ugualmente assorbite dalla declaratoria di illegittimità per eccesso dalla delega, sono risultate anche le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 16 d.lgs. n. 28 del 2010 per contrasto agli artt. 3 e 24, relative alle violazioni del principio di uguaglianza sostanziale e di accesso alla giustizia per la disciplina dei costi e delle modalità di corresponsione delle indennità da parte dei soggetti che richiedono la mediazione, sollevate dal Giudice di pace di Catanzaro con le ordinanze datate 1 settembre 2011 e 3 novembre 2011; in particolare, nella prima di esse, veniva lamentata la violazione dell’art. 3 Cost. per la disparità degli obblighi gravanti sulle parti: difatti, mentre il soggetto proponente sarebbe in ogni caso gravato dall’obbligo di corrispondere le spese di avvio della procedura e le spese di mediazione, le altre parti, in caso di mancata adesione alla procedura, non sarebbero tenute ad alcun versamento; nella seconda, invece, il profilo di illegittimità è indicato nei confronti dell’art. 24 Cost., in relazione al costo “non meramente simbolico” della procedura che «in quanto subordina l’esercizio della funzione giurisdizionale al pagamento di una somma di denaro» sarebbe in contrasto con «quanto affermato dalla sentenza n. 67 del 2 novembre 1960 (…) secondo cui lo Stato non può pretendere somme di denaro per la funzione giurisdizionale civile, se non nel caso di tributi giudiziari o cauzioni» ed ancora «prevedendo che l’esborso di denaro non è destinato allo Stato, ma ad un organismo anche di natura privata, contrasterebbe con il principio fissato nelle sentenze n. 522 del 2002 e n. 333 del 2001 della Corte Costituzionale, secondo cui l’esborso deve essere razionalmente collegato alla pretesa dedotta in giudizio, allo scopo di assicurare al processo uno svolgimento meglio conforme alla sua funzione».

Sennonché, nel caso delle spese di mediazione, non può certo ravvisarsi la natura di tributo giudizio o cauzione, pur nella considerazione del collegamento funzionale con la risoluzione della controversia, ma piuttosto quella di corrispettivo per l’erogazione di un servizio nell’ambito del contratto per l’amministrazione della procedura. L’obbligo al pagamento delle spese, dunque, si inserisce nell’ambito di un rapporto privato, quale appunto il contratto tra i soggetti che richiedono la procedura e l’organismo deputato allo svolgimento e determina, in capo a quest’ultimo, il sorgere di un diritto di credito al soddisfacimento del quale può essere sottoposto il rilascio del verbale.

Ancora, può evidenziarsi come la previsione del carattere oneroso della mediazione e l’obbligo di corresponsione delle spese quali elementi condizionanti l’accesso alla giustizia (per le ipotesi di mediazione obbligatoria) in ragione della capacità economica delle parti, apparivano tuttavia smentiti da almeno due dati testuali: in primo luogo, l’art. 17 comma 5 d.lgs. n. 28 del 2010, il quale prevedeva che la procedura si svolgesse senza alcun onere per i soggetti che hanno diritto al patrocinio a spese dello Stato; in presenza di una semplice dichiarazione (sostitutiva dell’atto di notorietà) attestante il possesso dei requisiti richiesti, sia la parte istante che la parte invitata avrebbero potuto partecipare alla procedura ed ottenere il rilascio del relativo verbale senza alcuna contribuzione. Con tale disposizione appariva integrato appieno il carattere di alternatività della mediazione, realizzandosi altresì quanto previsto dall’art. 10 della direttiva 2002/8/CE, nel sollevare le parti che non possono sostenere il peso economico del processo da qualsiasi spesa anche per i procedimenti stragiudiziali, quando il ricorso sia imposto dalla legge o dal giudice. In secondo luogo, da una attenta analisi della normativa in tema di costi della procedura, emerge come essi siano chiaramente predeterminabili dalle parti e parametrati al valore della lite: indici che permettono di ipotizzare, per la quasi totalità dei casi, costi minori rispetto a quelli di un processo civile; né vale la considerazione di un aggravio delle spese, dovuto alla somma tra quelle della mediazione e quelle del processo, dal momento che una tale ipotesi dovrebbe essere valutata solo come eventuale e residuale, nei casi, cioè, di fallimento della mediazione.

La questione dei costi non ha più ragion d’essere dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 5 comma 1, tuttavia una corretta informa- zione sui reali costi della procedura, soprattutto nell’ottica di una valorizzazione della mediazione volontaria, appare fondamentale per garantire una adeguata diffusione ed il coinvolgimento degli operatori.

In conclusione, la sentenza della Corte Costituzionale ha indubbiamente segnato una battuta d’arresto nel processo di diffusione della mediazione in Italia ed ha immediatamente scatenato gli operatori del settore in una frenetica battaglia per la riconquista delle posizioni perdute; dal testo della sentenza, come si è detto, emerge chiaramente come le censure di illegittimità costituzionale insistano sul profilo del vizio formale (l’eccesso dalla delega), senza addentrarsi in valutazioni sull’istituto o sull’articolazione data dal d.lgs. n. 28 del 2010: ne deriva che un nuovo intervento legislativo ben potrebbe proporre una nuova modalità di mediazione obbligatoria nei confronti della quale la normativa comunitaria, interpretata come “neutrale”, non potrebbe porsi come fonte, ma di certo neanche come ostacolo.

La Corte, infatti, ha affermato con assoluta chiarezza che laddove il legislatore nazionale volesse oggi intervenire, con legge ordinaria, sulla disciplina della mediazione prevedendo ipotesi di obbligatorietà, ciò non sarebbe affatto in contrasto con la normativa europea la quale prende in considerazione la mediazione anche nella sua forma obbligatoria, considerandola del tutto legittima, e come una delle possibilità in cui si può articolare la mediazione, la cui scelta, insieme con quella volontaria e con quella invitata dal giudice, rientra nella piena e legittima discrezionalità del legislatore nazionale. Con l’unico limite che la relativa previsione non precluda l’accesso all’autorità giudiziaria.

Ne consegue che, laddove il legislatore italiano reintroducesse la mediazione obbligatoria, ciò sarebbe del tutto in linea con la legislazione europea, né si potrebbe sollevare, con qualche fondamento giuridico, questione di costituzionalità, salvo a volere contro ogni logica e ragionevolezza ritenere che la nostra Carta Costituzionale sia confliggente ed incompatibile con siffatta normativa europea.

Fra l’altro, laddove venisse reintrodotta con legge la mediazione obbligatoria, a fronte di una eventuale eccezione di incostituzionalità, ben potrebbe essere ricordata, per contrastarne il fondamento, anche l’affermazione contenuta in altra precedente decisione della stessa Corte Costituzionale e che la stessa sentenza in commento ricorda.

Né è secondario ricordare il passaggio della sentenza della Corte Costituzionale nella quale viene riportata l’affermazione (punto 65) della sentenza della Corte di Giustizia europea del 18 marzo 2010, sezione quarta, dove si afferma, con piena logica e veridicità, che non esiste un’alternativa meno vincolante alla predisposizione di una procedura obbligatoria, dato che l’introduzione di una procedura di risoluzione extragiudiziale meramente facoltativa non costituisce uno strumento altrettanto efficace per la realizzazione di detti obiettivi; dall’altro, non sussiste una sproporzione manifesta tra tali obiettivi e gli eventuali inconvenienti causati dal carattere obbligatorio della procedura di conciliazione extragiudiziale.

In definitiva, si ritiene che all’esito della lettura della motivazione della sentenza n.272/2012 le aspettative di chi pensava e sperava in una bocciatura sostanziale e nel merito, ad opera della Corte Costituzionale, dell’istituto della mediazione ed in particolare di quella obbligatoria, rimangono frustrate e che per contro alla introduzione di una rinnovata forma di obbligatorietà non vi sia alcun ostacolo e che anzi la mediazione, anche quella obbligatoria, esca rafforzata dalla pronuncia in commento.

La Corte, infatti, in una sequenza logica delle questioni da analizzare, ha ritenuto l’eccesso di delega come assorbente, e non si è spinta oltre: sì che, è lecito pensare che essa  abbia ritenuto implicitamente non rilevanti le altre eccezioni sollevate: mi riferisco alla compatibilità dell’articolo 5, comma I, citato con gli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione.

A favore di questa interpretazione militano, a mio avviso, le seguenti considerazioni.

Innanzitutto, se fosse stato l’inverso, e cioè una contrarietà dell’articolo 5 citato con gli articoli 3,24, e 111 della Costituzione, ogni riferimento alla delega sarebbe risultato ininfluente, perché sarebbe venuto meno in radice ogni ragionamento astratto sulla configurabilità o meno in Italia di una mediazione di tipo obbligatorio, in quanto neppure il Parlamento avrebbe potuto conferire la delega al Governo.

In secondo luogo, i riferimenti che la Corte fa anche alla normativa Europea depongono in senso favorevole a tale ricostruzione. Difatti, come si è già sottolineato, in un passo della motivazione si legge che “la disciplina dell’UE si rivela neutrale in ordine alla scelta del modello di mediazione da adottare, la quale resta demandata ai singoli Stati membri, purché sia garantito il diritto di adire i giudici competenti per la definizione giudiziaria delle controversie”. Quindi, sono gli Stati che decidono se la procedura di mediazione deve essere obbligatoria o meno. Pertanto, la Corte Costituzionale ravvisa, implicitamente, la compatibilità di un modello di mediazione di tipo obbligatorio con la normativa Europea (altrimenti non si parlerebbe di “neutralità” ma di “contrarietà”).

Sul punto vengono richiamate tutta una serie di disposizioni: prima fra tutte la direttiva 2008/52/CE ove all’articolo 5 comma 2, dispone che: “La presente direttiva lascia impregiudicata la legislazione nazionale che rende il ricorso alla mediazione obbligatorio oppure soggetto ad incentivi o sanzioni sia prima che dopo l’inizio del procedimento giudiziario, purché tale legislazione non impedisca alle parti di esercitare il diritto di accesso al sistema giudiziario”.

Dunque, nessuna violazione dei principi costituzionali per un modello di mediazione quale condizione di procedibilità della domanda giudiziale, ma semplicemente un eccesso dalla delega del legislatore delegato, rispetto a quello delegante.  Che senso avrebbe avuto parlare di eccesso dalla delega, se la delega non poteva essere nemmeno conferita, perché vertente su una previsione incostituzionale?

Certo dalla Corte ci si sarebbe aspettato qualcosa di più in termini di completezza nell’affrontare le questioni a lei sottoposte; ma ora più che mai appare opportuna una presa di posizione rapida e netta da parte del Governo, ed in particolare del Ministro della Giustizia, affinché dia nuovamente agli operatori del mondo del diritto (al di là dell’appartenenza nella categoria dei favorevoli o contrari alla mediazione) quella certezza che si aspettano: e, in particolare, se l’Italia dovrà abbandonare  o meno l’idea della costruzione e dello sviluppo di  un sistema di risoluzione delle liti alternativo  alla giurisdizione, gestito in maniera seria ed efficiente, ma che non potrà prescindere, per funzionare, da forme più o meno ampie di obbligatorietà, e si spera, questa volta, emergente dal confronto tra i vari operatori  del mondo della Giustizia e dal contributo costruttivo di tutti.

A tal riguardo, appare particolarmente significativo un brano della proposta dei “Saggi”, nominati dal Presidente Napolitano, sulla giustizia ( tra i quali vi sono autorevoli giuristi, da Valerio Onida a Giovanni Pitruzzella).

Nel Cap. V., in tema di giustizia civile, infatti, si propone:

a) “l’instaurazione effettiva di sistemi alternativi (non giudiziari) di risoluzione delle controversie, specie di minore entità, anche attraverso la previsione di forme obbligatorie di mediazione (non escluse dalla recente pronuncia della Corte costituzionale – sent. n. 272 del 2012 – che ha dichiarato illegittima una disposizione di decreto legislativo che disponeva in questo senso, ma solo per carenza di delega); questi sistemi dovrebbero essere accompagnati da effettivi incentivi per le parti e da adeguate garanzie di competenza, di imparzialità e di controllo degli organi della mediazione”.

A mio avviso, un intervento del legislatore appare quanto mai opportuno, se non per ripristinare la situazione precedente alla sentenza della Corte, almeno per offrire una più organica strutturazione delle modalità dell’istituto ed una migliore definizione dei rapporti tra risoluzione negoziata e risoluzione giudiziale delle controversie, anche in considerazione della prossima emanazione della direttiva europea sulle ADR per la risoluzione delle liti in materia commerciale, del consumo e familiare.

Sarebbe, in particolare, opportuno non soltanto valutare con attenzione i possibili spazi di operatività di una nuova normativa in tema di mediazione obbligatoria (evitando ogni rigidità e irragionevolezza), ma soprattutto valorizzare il ricorso alla mediazione volontaria. In particolare, il ricorso alla mediazione volontaria potrebbe acquistare nuovi ambiti di operatività proprio in quei settori che già l’art. 5 comma 1 aveva indicato come più adatti alle soluzioni negoziate, quali ad esempio i rapporti di condominio (attraverso l’inserimento delle clausole di mediazione nei regolamenti di condominio) o i contratti bancari e assicurativi (anche in questo caso attraverso l’inserimento delle clausole nei modelli contrattuali), oppure in ambiti che ne erano stati originariamente esclusi (in generale, la materia dei contratti o, ancora, quella della responsabilità professionale, intesa in senso ampio). Del resto, la “cultura della mediazione”, spesso evocata ma realmente ancora lontana nella realtà italiana, comporta un cambiamento sociale e culturale, prima ancora che strettamente giuridico, ma richiede altresì adeguati tempi di maturazione; i risultati raggiunti nei primi venti mesi testimoniano come le misure poste dal legislatore in termini di obbligatorietà abbiano svolto un ruolo importante, ma non decisivo, dal momento che persiste ancora un diffuso scetticismo, soprattutto da parte degli operatori del mondo del diritto e della giustizia, per i quali, come si è detto, proprio il carattere dell’obbligatorietà è stato, probabilmente, l’elemento di maggiore criticità. Eppure, oltre le istanze sociali e i cambiamenti determinati dalla circolazione e dall’adesione a nuovi modelli, la cultura della mediazione costituisce un elemento irrinunciabile proprio nell’ottica di uno sviluppo sociale competitivo e volto ad una sempre maggiore integrazione nello spazio (giuridico) europeo attraverso diversi fattori: dalla efficace riduzione del contenzioso tra i privati alla possibilità di fornire alle imprese uno strumento di rapida ed efficiente risoluzione delle controversie, con positive ricadute sia sulla circolazione dei prodotti e dei servizi, che sul tasso di fiducia dei consumatori. Un sistema “integrato” di giustizia, insomma, in cui l’accesso alla giustizia ordinaria sia l’extrema ratio, l’ultima opzione, da tentare solo dopo aver fallito nei sistemi alternati vidi risoluzione delle controversie.