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11 giugno, 2013

L’ORDINANZA DI RIMESSIONE ALLE SEZIONI UNITE SULLA DISTINZIONE TRA CONCUSSIONE E INDUZIONE INDEBITA



Autorità: Cassazione penale sez. VI

Data udienza: 09 maggio 2013

Numero: n. 20430

INTESTAZIONE

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE ROBERTO Giovann – Presidente -

Dott. CONTI Giovann – Consigliere -

Dott. ROTUNDO Vincenz – Consigliere -

Dott. APRILE E. – rel. Consigliere -

Dott. PATERNO’ RADDUSA Benedet – Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

1. C.L., nato a (OMISSIS); 2. F.A.F.L., nato a(OMISSIS) 3. G.G., nato a (OMISSIS); 4. L.A., nata a (OMISSIS); 5. M.G., nato a (OMISSIS); 6. Mu.Do., nato a (OMISSIS); 7. S.N., nato a (OMISSIS); 8. T.A., nato a (OMISSIS); 9. Tu.Sa., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 13/01/2010 della Corte di appello di Bari;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Ercole Aprile;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore

generale Dr. Mazzotta Gabriele, che ha concluso chiedendo il rigetto

dei ricorsi del Mu. e del T., e la rimessione alle

Sezioni Unite dei restanti ricorsi;

uditi per gli imputati l’avv. Vincenzo Princigalli per F.

A.F.L., l’avv. Francesco Paolo Sisto per M.

G. e l’avv. Giovani Aricò per Tu.Sa., i quali

si sono associati alla richiesta del P.G. di rimessione dei ricorsi

alle Sezioni Unite; nonchè l’avv. Giuseppe Nuzzo per L.

A. e l’avv. Giovanni Capaldi per Mu.Do., i quali

hanno concluso chiedendo, in via principale, l’annullamento della

sentenza impugnata e, in via subordinata, la rimessione dei ricorsi

alle Sezioni Unite.

FATTO

RITENUTO IN FATTO

1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Bari riformava in parte la pronuncia di primo grado emessa, all’esito di rito abbreviato, il 13/01/2010 dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Trani, riducendo la pena principale inflitta a C.L., G.G. e M.G., pure revocando o sostituendo le relative pene accessorie, e confermava nel resto la medesima pronuncia con la quale quel Giudice aveva condannato:

- C.L. in relazione ai reati di cui agli artt. 110, 56 e 317 c.p. (capo d’imputazione Z) e artt. 110, 81, 476, 479 e 323 c.p. (capo Omega);

- F.A.F.L. in relazione al reato di cui agli artt. 110, 56 e 317 c.p. (capo W);

- G.G. in relazione ai reati di cui agli artt. 110, 56 e 317 c.p. (capo A), artt. 319 e 321 c.p. (capo F), artt. 110, 56 e 317 c.p. (capo W) e artt. 110, 56 e 317 c.p. (capo Z);

- L.A. in relazione al reato di cui agli artt. 110 e 317 c.p. (capo C);

- M.G. in relazione ai reati di cui agli artt. 110, 56 e 317 c.p. (capo A), artt. 110 e 317 c.p. (capo C), 319 e 321 c.p. (capo O), artt. 110, 81 e 479 c.p. (capo P), ritenuta in essa assorbita l’imputazione di cui all’art. 323 c.p.), artt. 110 e 317 c.p. (capi U) e Y), artt. 81, 110 e 317 c.p. (capo Omega 1) e artt. 110 e 490 c.p., art. 476 c.p., commi 1 e 2, art. 61 c.p., n. 2 (capo Omega 2);

- Mu.Do. in relazione al reato di cui agli artt. 319 e 321 c.p. (capo F);

- S.N. in relazione in relazione al reato di cui agli (capo C);

- T.A. in relazione ai reati di cui agli artt. 319 e 321 c.p. (capi G) ed H);

- Tu.Sa. in relazione al reato di cui agli artt. 110, 56 e 317 c.p. (capo B);

oltre che il primo, il terzo, il quinto ed il nono al risarcimento dei danni in favore delle parti civili rispettivamente costituitesi contro ciascuno di loro.

Rilevava la Corte di appello come le emergenze processuali – in specie le dichiarazioni rese dalle vittime delle concussioni, consumate o tentate, le deposizioni rese dalle persone informate dei fatti, la documentazione acquisita, i risultati delle intercettazioni telefoniche ed ambientali eseguite durante le indagini, nonchè gli esiti degli accertamenti compiuti dai militari della guardia di finanza – avessero dimostrato la presenza degli elementi costitutivi dei delitti contestati, provando che alcuni ispettori della Direzione provinciale del lavoro di Bari, avvalendosi talvolta del compiacente ausilio di taluni consulenti del lavoro o di altri soggetti privati che avevano svolto un compito di intermediazione tra il funzionario pubblico e l’imprenditore privato, avevano posto in essere una serie di gravi reati contro la pubblica amministrazione e la fede pubblica:

in particolare eseguendo ispezioni presso imprese della zona del nord barese, rilevando la sussistenza di violazioni della normativa in materia di “lavoro sommerso” o di tenuta delle scritture contabili o di altra documentazione concernente l’azienda o beni strumentali, contestando ai relativi titolari quelle irregolarità e prospettando l’irrogazione di severe sanzioni pecuniarie o della sospensione immediata delle attività di impresa, avevano chiesto ovvero sollecitato o accettato la dazione o la promessa di somme di denaro o di altre utilità; condotte che non sempre avevano realizzato lo scopo criminoso programmato, che in alcuni casi si erano concretizzate in iniziative concussive degli ispettori, in altre in proposte conduttive avanzate dai privati, e che, in talune occasioni, erano state accompagnate dalla consumazione, da parte dei medesimi funzionari, di reati “strumentali”, quali quelli di falso ideologico ovvero di falso per soppressione o per occultamento di atti della pubblica amministrazione.

Avverso tale sentenza hanno presentato ricorso i nove imputati sopra elencati.

2. Con atto sottoscritto dal suo difensore avv. Maralfa Giuseppe, C.L. ha dedotto i seguenti due motivi.

2.1. Violazione di legge, in relazione agli artt. 476, 479 e 323 c.p., oggetto di contestazione al capo Omega), e vizio di motivazione, per mancanza, manifesta illogicità e travisamento della prova, per non avere la Corte di appello chiarito in base a quali prove fosse risultato dimostrato il concorso del C. nella falsificazione del verbale delle dichiarazioni rese dal lavoratore Ch.Al., peraltro sottoscritto da un altro ispettore;

per avere omesso di considerare che il verbale delle dichiarazioni rese dal lavoratore Ch.To. non fosse stato alterato, recando l’indicazione di una data di inizio del rapporto lavorativo (2002) incompatibile con la tesi accusatoria secondo la quale l’imputato avrebbe voluto agevolare la ditta interessata alla ispezione; per aver fatto riferimento alla documentazione relativa ad una “azienda agricola”, evidentemente diversa da quella richiamata nel capo d’imputazione; ed ancora, per non avere verificato se il provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale adottato dal C. (per giunta recante sottoscrizioni inidonee ad identificare i funzionari verbalizzanti) era stato in effetti più favorevole per il destinatario rispetto a quello che il prevenuto avrebbe dovuto emettere.

2.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 110, 56 e 317 c.p., oggetto di contestazione al capo Z), e vizio di motivazione, per mancanza, manifesta illogicità e travisamento della prova, per non avere la Corte territoriale tenuto conto che l’iniziativa di versare una somma di denaro era stata assunta dal privato B., il quale aveva reso una versione scarsamente credibile e, pertanto, non poteva essere considerato vittima di una tentata concussione, anche perchè non aveva avuto alcun sentimento di paura o di timore verso il C., cui era stato, invece, legato da un pregresso rapporto di amicizia.

3. Con atto sottoscritto dal suo difensore avv. Vincenzo Princigalli, F.A.F.L. ha dedotto, con un unico motivo, la violazione di legge ed in vizio di motivazione, per avere la Corte distrettuale confermato la pronuncia di condanna di primo grado in relazione al reato di tentata concussione contestato al capo W), omettendo di dare adeguata risposta alle doglianze esposte con l’atto di appello con il quale si era evidenziato che il F., lungi dal concorrere nel persuadere Mi.Mi., vittima della richiesta concussiva formulata dai funzionari pubblici V. e G., aveva svolto il ruolo di mediazione nell’esclusivo interesse del Mi., senza porre in essere alcuna condotta idonea a creare in quest’ultimo uno stato di soggezione ovvero di costrizione.

4. Con atto sottoscritto dal suo difensore avv. Michele De Pascale, G.G. ha dedotto, con un unico motivo, la violazione di legge, in relazione agli artt. 317, 318 e 322 c.p., per avere la Corte di appello barese omesso di considerare che la normativa vigente all’epoca dei fatti stabiliva che gli imprenditori, interessati da una iniziativa di verifica ad opera degli ispettori della Direzione provinciale del lavoro, venissero assistiti da un commercialista o da un consulente di loro fiducia, sì da creare una sorta di “trattativa” con i pubblici funzionari, con la conseguenza che le vicende delittuose in contestazione si sarebbero dovute più correttamente inquadrare nelle fattispecie di corruzione, anzichè in quelle di concussione.

5.1. Con atto sottoscritto dal suo difensore avv. Giuseppe Nuzzo, L.A. ha dedotto, formalmente con un unico motivo, la violazione di legge, in relazione agli artt. 110 e 317 cod. pen., ed il vizio di motivazione, per non avere la Corte territoriale chiarito quale ruolo avesse avuto la prevenuta nella commissione della concussione consumata dall’ispettore M., per il tramite dell’intermediario S.N., ai danni di D.L.R. e C.G., titolari dell’azienda agricola ove era stata effettuata una verifica: e ciò tenuto conto che la L. non aveva fatto parte del gruppo di funzionari che aveva eseguito quella ispezione, nè aveva avuto alcun rapporto diretto con i titolari della ditta verificata; che il nome della stessa era stato fatto, in una telefonata intercettata, dal solo S.; e che la predetta aveva avuto in seguito la disponibilità di uno degli apparecchi cellulari acquistati dalla D.L. e dal C. solo per le insistenze del M..

5.2. Con memoria del 22/04/2013 il difensore della L. ha insistito per l’annullamento della sentenza gravata anche alla luce della normativa sopravvenuta prevista dalla L. n. 190 del 2012, che ha modificato l’art. 317 ed ha inserito il nuovo art. 319 quater c.p..

6. Con atto sottoscritto dal suo difensore avv. Francesco Paolo Sisto, M.G. ha dedotto la violazione di legge, in relazione all’art. 192 c.p.p., ed il vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità, per avere la Corte pugliese confermato la condanna emessa dal giudice di prime cure, nonostante:

- in relazione ai capi A) e C) dell’imputazione, fosse mancata la prova di un qualsivoglia contributo concorsuale del M. all’iniziativa criminosa materialmente posta in essere, nel primo caso, dal V. e dal G., nel secondo dal V. e dalla L.;

- in relazione ai capi O) e P) ed al capo U) dell’imputazione, i coimputati R. e P. fossero stati prosciolti dai rispettivi addebiti per mancanza di prova circa un loro consapevole concorso nella commissione dei delitti loro contestati;

- in relazione ai capi Y), omega 1) e omega 2), le dichiarazioni accusatorie rese dalle persone offese fossero risultate tutt’altro che attendibili.

7.1. Con atto sottoscritto dal suo difensore avv. Giovanni Capaldi, Mu.Do. ha dedotto, con un unico motivo, la violazione di legge, in relazione agli artt. 319 e 321 c.p., ed il vizio di motivazione, per avere la Corte di merito confermato la sentenza di condanna di primo grado, in totale assenza di prova circa un concorso del prevenuto nella commissione della corruzione propria riferibile all’ispettore del lavoro G. ed all’imprenditore privato St..

7.2. Con memoria del 19/04/2013 il difensore del Mu. ha dedotto, come motivi nuovi, la violazione di legge, in relazione all’art. 649 c.p.p., per essere divenuta irrevocabile la sentenza di non doversi procedere nei confronti del coimputato St., giudicato in un distinto processo, in relazione al medesimo delitto contestato al Mu.; e per avere, comunque, quella sentenza accertato che il presunto lavoratore “a nero” D., di cui vi è traccia nell’imputazione, era stato, invece, assunto regolarmente dall’azienda, contrariamente a quanto attestato nella motivazione della sentenza impugnata.

8. Con atto sottoscritto dal suo difensore avv. Giangregorio De Pascalis, S.N. ha dedotto i seguenti due motivi.

8.1. Vizio di motivazione, per mancanza e contraddittorietà, per avere la Corte di appello erroneamente confermato la pronuncia di condanna di primo grado, benchè fosse emerso che il S. si era limitato a fare da nuncius, da tramite della richiesta concessiva, senza rafforzare l’altrui proposito criminoso nè raggiungere alcuna intesa con gli ispettori del lavoro che avevano effettuato la verifica presso l’azienda della D.L. e del C., nell’esclusivo interesse dei quali egli aveva agito.

8.2. Violazione di legge, in relazione agli artt. 114 e 323 bis c.p., per avere la Corte territoriale negato all’imputato il riconoscimento della circostanza del contributo del concorrente di minima importanza ovvero quella del fatto di particolare tenuità.

9. Con atto sottoscritto dal suo difensore avv. Stefano Dardes, T.A. ha dedotto il vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità, per avere la Corte di appello di Bari:

- in relazione all’imputazione del capo G), omesso di rilevare che l’atto compiuto dal T., oggetto di addebito, consistente nella mancata irrogazione di una sanzione per l’omessa o carente compilazione di dischi cronotachigrafici, era conforme e non contrario ai doveri d’ufficio; nonchè per avere erroneamente reputato attendibili le dichiarazioni del coimputato Si., il quale aveva offerto una versione non riscontrata dalla documentazione acquisita, e per avere ingiustificatamente ritenuto che la condotta del T. fosse il risultato del pactum sceleris raggiunto con il Si., laddove la consegna dei buoni benzina era stata sola una imprevista “regalia” fatta dal privato al funzionario pubblico;

- e, in relazione all’imputazione del capo H), omesso di acquisire agli atti la pratica relativa all’ispezione eseguita alla ditta del Ta., anche allo scopo di verificare se gli atti contrari ai doveri di ufficio, asseritamente compiuti dal T., rientrassero o meno nella sfera di competenze di questo pubblico ufficiale.

10. Con atto sottoscritto dai suoi difensori avv. Giuseppe Cioce e avv. Francesco Ranieri, Tu.Sa. ha dedotto il vizio di motivazione, per mancanza ovvero per manifesta illogicità, per avere la Corte territoriale confermato la pronuncia di condanna di primo grado senza dare adeguata risposta alle censure esposte nell’atto di appello, senza effettuare alcuna pregnante verifica sull’attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa D. C., senza tenere conto che la normativa in materia prevedeva la possibilità della definizione del contenzioso con il pagamento, da parte dell’imprenditore, di una sanzione ridotta ad un quarto, di una somma, cioè, pari a quella che il Tu. aveva chiesto al D. C. di versare: richiesta che il ricorrente aveva formulato, nell’esclusivo interesse del proprio cliente e nel contesto di una evidente volontà di “conciliare” la sanzione, come comprovato dal tenore di alcune intercettazioni telefoniche e dal fatto che, nello stesso torno di tempo, il Tu. aveva avviato, per conto del D. C., una pratica per l’iscrizione della relativa impresa alla locale Camera di commercio.

11. Con memoria del 11/05/2013 l’avv. Alfonso Pasquale Palumbieri, difensore della parte civile D.C.R., ha chiesto rigettarsi il ricorso dell’imputato Tu. ed ha presentato una nota specifica chiedendo la condanna del predetto alla rifusione delle spese relative a questo grado di giudizio.

DIRITTO

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Ritiene il Collegio che l’esame dei ricorsi imponga la definizione di una questione giuridica centrale, e cioè quali siano i presupposti di applicabilità degli artt. 317 e 319 quater c.p. (come rispettivamente il primo sostituito ed il secondo introdotto dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, contenente “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e della illegalità nella pubblica amministrazione”) e quali gli elementi di distinzione delle relative fattispecie incriminatrici.

Ed infatti, a tutti gli imputati cui nel presente processo sono stati contestati i reati di concussione, consumata o tentata, ai sensi del previgente art. 317 c.p., è stato addebitato di avere abusato delle qualità e dei poteri, nello svolgimento del servizio e nell’esercizio delle funzioni di vigilanza, di ispettori di una Direzione provinciale del lavoro (per alcuni imputati per avere concorso, quali extranei, nella commissione del fatto degli intranei), inducendo ovvero compiendo atti idonei e diretti in modo non equivoco ad indurre – induzione in alcuni casi contestata “per persuasione”, in altri “per minaccia” – i titolari di imprese interessate a visite ispettive, a consegnare o promettere indebitamente somme di denaro, altri beni o utilità: in particolare, dopo avere rilevato e/o contestato varie irregolarità commesse da quegli imprenditori, comportanti l’irrogazione di sanzioni pecuniarie o della sanzione dell’immediata sospensione dell’attività, quegli agenti pubblici avevano rappresentato la possibilità di “azzerare” e porre nel nulla le contestazioni già effettuate, ovvero la possibilità di non elevare alcun addebito, laddove fosse stata soddisfatta la loro indebita pretesa; in ogni caso avevano prospettato, in ipotesi di mancato accoglimento della richiesta, la possibilità della irrogazione di sanzioni pecuniarie per importi anche maggiori rispetto a quelli dovuti, che sarebbero stati perciò “gonfiati”, al fine “di terrorizzare le vittime e piegarne le volontà alle illecite loro pretese”.

Imputazioni molto articolate che, al di là delle formule lessicali impiegate, con le quali elementi riferibili ad attività di induzione sono stati, di fatto, confusi con altri che potrebbero apparire manifestazione di attività di costrizione, e nelle quali il risultato, perseguito o conseguito, delle condotte delittuose è stato sempre indicato come quello “di porre le vittime in uno stato di terrore” – stato del quale, invero, con riferimento ad alcune vicende, non sembrerebbe esservi traccia nella motivazione della sentenza impugnata – obbligano il Giudice di legittimità ad attribuire a ciascuno di quei fatti la corretta qualificazione giuridica alla luce della nuova disciplina contenuta nei citati artt. 317 e 319 quater c.p..

2. Come noto, la L. n. 190 del 2012, n. 190, nel novellare la disciplina dei reati contro la pubblica amministrazione, ha sostituito l’art. 317 c.p., con l’introduzione di una “diversa” fattispecie di “concussione”, ed ha introdotto l’art. 319 quater c.p., riguardante l’innovativo reato della “induzione indebita a dare o promettere utilità”, figura sostanzialmente intermedia tra quella residua della condotta concussiva sopraffattrice e quella dell’accordo corruttivo, integrante uno dei reati previsti dall’art. 318 c.p. o dall’art. 319 c.p. (anch’essi modificati dalla stessa legge).

Pure allo scopo di uniformare la normativa interna ai principi della Convenzione contro la corruzione di Merida del 2003, approvata in ambito ONU, e della Convenzione penale sulla corruzione di Strasburgo del 1999, approvata in ambito di Consiglio d’Europa – convenzioni ratificate in Italia rispettivamente con le L. n. 116 del 2009 e L. n. 110 del 2012 – il legislatore nazionale, come si è accennato, ha “spacchettato” l’originaria ipotesi delittuosa della concussione (che, nel testo previgente dell’art. 317 c.p., parificava le condotte di costrizione e di induzione), creando due nuove fattispecie di reato.

La prima, che resta disciplinata dall’art. 317 c.p. e prevede la punizione del “pubblico ufficiale che, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, costringe taluno a dare o promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità”, conserva i precedenti caratteri ed elementi costitutivi della fattispecie della concussione per costrizione, limitandosi ad incrementare il limite edittale minimo della pena detentiva (portata da quattro a sei anni di reclusione) e lasciando come soggetto attivo il solo pubblico ufficiale, con esclusione, dunque, della figura di incaricato di pubblico servizio.

La seconda fattispecie di reato, “scorporata” dal previgente art. 317 c.p. ed ora regolata dall’art. 319 quater c.p., recante in rubrica la nuova denominazione di induzione indebita a dare o promettere utilità, è configurabile, “salvo che il fatto non costituisca più grave reato”, laddove “il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, induce taluno a dare o a promettere indebitamente, a lui o a un terzo, denaro o altra utilità”: delitto, dunque, che può essere commesso sia dal pubblico ufficiale che dall’incaricato di pubblico servizio, sanzionato con la più mite pena della reclusione da tre ad otto anni, e che ha una struttura, con riferimento alla condotta del pubblico agente (comma 1), nella quale sono stati riproposti gli stessi elementi qualificanti la “vecchia” figura della concussione per induzione. Rappresenta, invece, dato di assoluta novità la previsione, nel cit. art. 319 quater, comma 2, della punizione anche dell’indotto, cioè del soggetto che “da o promette denaro o altra utilità”, il quale, da persona offesa nell’originaria ipotesi di concussione per induzione di cui al previgente art. 317 c.p., diventa coautore nella nuova figura dell’induzione indebita.

3. Nel tentativo di verificare quali siano i criteri che permettono di distinguere la figura della concussione, prevista dal “nuovo” art. 317 c.p., da quella della induzione indebita a dare o promettere utilità, di cui all’introdotto art. 319 quater, nella giurisprudenza di questa Corte si sono delineati tre differenti indirizzi interpretativi.

3.1. Per un primo filone giurisprudenziale, la circostanza che le figure criminose descritte nei nuovi artt. 317 e 319 quater c.p. siano state create mediante una mera operazione di “sdoppiamento” dell’unica figura di concussione prevista dal previgente art. 317, senza l’aggiunta di ulteriori elementi descrittivi, induce a ritenere che il legislatore non ha inteso abbandonare l’impostazione che, in passato, la giurisprudenza di legittimità aveva proposto per distinguere le due “vecchie” ipotesi di concussione per costrizione o per induzione (impostazione per la quale si vedano, tra le altre, Sez. 6, n. 25694 del 11/01/2011, De Laura, Rv. 250468; Sez. 6, n. 33843 del 19/06/2008, Lonardo, Rv. 240795; Sez. 6, n. 49538 del 01/10/2003, P.G. in proc. Bertolotti, Rv. 228368).

Recuperando, così, gli approdi cui era pervenuta la Cassazione nell’esegesi della disposizione poi modificata, questa Corte ha avuto modo di sottolineare che la induzione, richiesta per la realizzazione del delitto previsto dall’art. 319 quater c.p., così come introdotto dalla L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 75, non è diversa, sotto il profilo strutturale, da quella che già integrava una delle due possibili condotte del previgente delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p. e consiste, quindi, nella condotta del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio che, abusando delle funzioni o della qualità, attraverso le forme più varie di attività persuasiva, di suggestione, anche tacita, o di atti ingannatori, determini taluno, consapevole dell’indebita pretesa, a dare o promettere, a lui o a terzi, denaro o altra utilità (Sez. 6, n. 8695/13 del 04/12/2012, Nardi, Rv. 254114).

Questa scelta ricostruttiva è stata successivamente ribadita da altre pronunce (v. Sez. 6, n. 11942 del 25/02/2013, Oliverio, Rv.

254444; Sez. 6, n. 16154 del 11/01/2013, Pierri, Rv. 254539; Sez. 6, n, 17285 del 11/01/2013, Vaccaro, Rv. 254621; Sez. 6, n. 18968 del 11/01/2013, Bellini, ancora non massimata): è significativa quella nella quale si è puntualizzato che, nel delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p., così come modificato dalla L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 75, la costrizione consiste in quel comportamento del pubblico ufficiale idoneo ad ingenerare nel privato una situazione di “metus”, derivante dall’esercizio del potere pubblico, che sia tale da limitare la libera determinazione di quest’ultimo, ponendolo in una situazione di minorata difesa rispetto alle richieste più o meno larvate di denaro o altra utilità e si distingue dall’induzione, elemento oggettivo della nuova fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p. (pure introdotta dalla medesima L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 75), che invece può manifestarsi in un contegno implicito o blando del pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio in grado, comunque, di determinare uno stato di soggezione, ovvero in un’attività di determinazione più subdolamente persuasiva (Sez. 6, n. 3093/13 del 18/12/2012, P.G. e Aurati, Rv. 253947).

Dunque, secondo tale indirizzo esegetico ciò che continua a distinguere la condotta di costrizione da quella della induzione è l’intensità della pressione psichica prevaricatrice, che nella prima ipotesi è integrata da una più blanda o tenue attività di suggestione, di persuasione o di pressione morale, che non condiziona gravemente la libertà di determinazione dell’indotto, il quale è, a sua volta punibile (sia pur con una sanzione meno severa) – laddove, consapevole della illiceità della pretesa, abbia dato o abbia promessi l’utilità al funzionario pubblico – perchè conserva un ampio margine di libertà di non accedere alla richiesta di denaro o di altra utilità; mentre, nella seconda, l’attività di pressione viene posta in essere con modalità più marcatamente minacciose, tali da provocare uno stato di timore in cui quella libertà di autodeterminazione, pur non del tutto eliminata, finisce per essere quasi del tutto compressa, il che permette di raffigurare il destinatario della indebita pretesa come una vittima, come tale non punibile.

Più in dettaglio, sono stati valorizzati tre argomenti motivazionali.

In primo luogo, è stato posto in luce l’esito della verifica della “voluntas legis”, che “è stata quella di formulare il precetto, nelle due “ristrutturate” e “autonome” figure di reato, con le identiche “parole” usate nella fattispecie originaria. Unica “vistosa” differenza è quella per cui il soggetto attivo per la “concussione” è solo il pubblico ufficiale, mentre, per la “induzione”, è anche l’incaricato di pubblico servizio. Ulteriore novità è la scelta del legislatore di punire anche colui che ha “ceduto all’induzione”, collaborando con la propria condotta alla verificazione dell’evento del reato”: il che porta a ritenere che “il legislatore non (possa) avere trascurato il diritto vivente formatosi nella vigenza della “unitaria fattispecie”.

In secondo luogo, è stato osservato come la scelta di attribuire al reato di induzione indebita a dare o promettere l’innovativa struttura del concorso di persone, non porta a legittimare l’affermazione che “la riedizione dei precetti in due autonome disposizioni abbia attribuito ad esse un diverso significato giuridico”, in quanto la nuova figura di reato ripropone, come era già sotto la vigenza del “vecchio” art. 317 c.p., “una fattispecie a “tipizzazione plurisoggettiva” perchè richiedeva e richiede per la sua consumazione il concorso, rectius, la collaborazione di altro soggetto. Pertanto, “la previsione della “punizione del soggetto indotto non incide sulla “struttura del reato”: (…) punizione di chi “da o promette” (che si giustifica perchè questi) – indipendentemente dall’utilità o meno della sua condotta non prevista quale elemento costitutivo del precetto – viola il “dovere di non collaborazione” che il legislatore ha individuato come “ratio” dell’incriminazione diretta a impedire che, nel caso di una pressione “più debole”, il soggetto, pur consapevole di star subendo e di dare o promettere il non dovuto, “collabori” a far conseguire l’indebito all’agente pubblico (pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio). Come posto in rilievo dalla dottrina, in tal caso “… la minaccia penale potrebbe incentivare una resistenza attiva contro l’induzione …” scopo “che la nuova norma si prefigge”.

In terzo luogo, è stato chiarito che “la contiguità della “induzione” alle ipotesi di corruzione giustifica e spiega il c.d.

“slittamento” sistematico verso le ipotesi corruttive e la notevole riduzione di pena prevista per la “induzione indebita” rispetto alla “concussione”. Resta, comunque, immutata la distinzione della corruzione, reato che, a tacer d’altro, richiede una parità tra due soggetti e una volontà comune orientata al do ut des; connotazioni estranee alle due diverse forme di “concussione” o “induzione”, il cui denominatore comune è “l’abuso di potere o delle qualità”.

Ciò che in realtà, però, continua a distinguere la “concussione”, e ora anche l’autonoma “induzione indebita a dare o promettere”, da un lato, e la corruzione propria, dall’altro, è la configurazione dei primi due delitti anche indipendentemente dalla “strumentalizzazione di uno specifico atto”, come accade nell’abuso della qualità”, ipotesi in cui la vittima di chi “costringe o induce” a dare o promettere un’indebita utilità agisce senza correlazione con uno “specifico atto” del soggetto investito di funzioni pubbliche. Da ciò discende che, in mancanza di una espressa previsione che possa attribuire un diverso significato a “costrizione e induzione”, l’interprete non è abilitato ad attribuire una definizione diversa a esse” (così, in particolare, in Sez. 6, n. 8695/13 del 04/12/2012, Nardi, cit).

3.2. Per un secondo filone giurisprudenziale, la costrizione, che costituisce l’elemento oggettivo della fattispecie di concussione di cui all’art. 317 c.p., così come modificata dalla L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 75, implica l’impiego da parte del pubblico ufficiale della sola violenza morale, che consiste in una minaccia, esplicita o implicita, di un male ingiusto, recante alla vittima una lesione patrimoniale o non patrimoniale; al contrario, l’induzione, che costituisce l’elemento oggettivo della fattispecie di cui all’art. 319 quater c.p., così come introdotta dalla medesima citata Legge, art. 1, comma 75, è concetto che va definito “per sottrazione”, sicchè deve ritenersi sussistente quando, in assenza di qualsivoglia minaccia, vengano prospettate, da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, conseguenze sfavorevoli derivanti dall’applicazione della legge, per ottenere il pagamento o la promessa indebita di denaro o altra utilità:

l’esclusione dal concetto di induzione di qualsiasi tipo di minaccia giustifica sia il minor grave trattamento sanzionatorio rispetto alla concussione, sia la punizione di chi aderisce alla violazione della legge, ricevendone un suo tornaconto (così Sez. 6, n. 3251/13 del 03/12/2012, Roscia, Rv. 253936-38).

Tale differente impostazione parte dalla constatazione “che quello che distingue la disposizione dell’attuale art. 317 c.p. dal nuovo art. 319 quater è l’uso del termine “costringe” da parte della prima disposizione rispetto al termine “induce” da parte della seconda.

I due verbi erano già impiegati nella formulazione originaria dell’art. 317 c.p. e la loro equipollenza in ordine al trattamento della condotta di concussione non aveva stimolato una riflessione sui loro significato specifico, tanto che molte imputazioni contenevano la formula “costringeva o comunque induceva” e che in alcune sentenze, sia pure in modo irriflesso, sembrava sostenersi che i due verbi fossero un’endiadi nel senso che “costringendo induceva”, ovvero che l’induzione fosse quasi una forma blanda, implicita, di costrizione. Oggi la scissione delle ipotesi criminose e il loro diverso trattamento crea il problema della distinzione, la quale, come si è detto, antecedentemente era pressochè irrilevante sotto il profilo giuridico”.

Sulla base di tale premessa, sono stati sviluppati tre passaggi argomentativi.

Con il primo si è considerato, “sotto il profilo linguistico, che i verbi costringere e indurre non indicano gli stessi momenti di un evento. Più specificamente costringere è verbo descrittivo di un’azione e del suo effetto, mentre indurre connota soltanto l’effetto e non connota minimamente il modo in cui questo effetto venga raggiunto. Per convincersi di ciò, se non ci si vuole accontentare della lettura di un dizionario, basta riferirsi allo stesso codice penale e rilevare che nell’art. 377 bis l’induzione si ottiene “con violenza o minaccia o con offerta o promessa di denaro o altra utilità”, nell’art. 507 l’induzione si realizza mediante propaganda o valendosi della forza e autorità di partiti, leghe o associazioni, nell’art. 558 l’induzione al matrimonio avviene attraverso l’inganno e via dicendo. Violenza o minaccia o propaganda o inganno sono modi alternativi e a volte incompatibili fra loro, ma tutti percorribili per ottenere il medesimo risultato”. Da tanto se ne è dedotto “sul piano sistematico che indurre indica solo il risultato e non il modo in cui questo è stato raggiunto; e ne deriva ancora che, nella dicotomia costringe – induce di cui agli artt. 317 e 319 quater, l’induzione, per la atipicità della relativa condotta, è il fenomeno residuale perchè comprende tutto quello che si realizza senza la costrizione. A sua volta, come si è detto, il termine costringe è descrittivo e corrisponde al fatto di chi impiega violenza fisica o morale o, in altri termini, usa violenza o minaccia per piegare qualcuno a un’azione non gradita. Quindi, sotto un profilo strettamente semantico, potrebbe dirsi che compie il reato di cui all’art. 317 c.p. il pubblico ufficiale che abusando della sua qualità o delle sue funzioni impiega violenza o minaccia per ricevere indebitamente la consegna o la promessa di denaro o di altra utilità. Peraltro, una visione sistematica porta a ridurre la fattispecie dell’art. 317 c.p.: l’uso della violenza fisica eccede in maniera così vistosa i poteri dell’agente che questa ipotesi, ancorchè letteralmente ricavabile dal verbo impiegato nell’articolo, non si adatta al fenomeno dell’abuso di qualità o di funzioni previsto dal medesimo art. 317 c.p., ma corrisponde, se si verifica, ad altri reati (estorsione in particolare) aggravati dalla qualità dell’agente. Resta quindi la minaccia e questa nel linguaggio giuridico è la prospettazione di un danno ingiusto (cfr. art. 612 c.p.)”.

Sulla base di tale ricostruzione esegetica, si è ulteriormente rilevato che “compie il reato di cui all’art. 317 c.p. chi costringe e cioè chi, abusando della sua qualità o dei suoi poteri, prospetta un danno ingiusto per ricevere indebitamente la consegna o la promessa di denaro o di altra utilità. Di converso, stante il già detto ambito residuale della norma, compie il reato di cui all’art. 319 quater chi per ricevere indebitamente le stesse cose prospetta una qualsiasi conseguenza dannosa che non sia contraria alla legge.

Nella prima ipotesi il pubblico ufficiale rappresenta che egli, violando la legge, recherà un detrimento, nella seconda che questo detrimento deriva o è consentito dall’applicazione della legge.

Nella prima ipotesi v’è costrizione della vittima perchè si è impiegata una minaccia. Nella seconda ipotesi non può parlarsi di minaccia perchè il danno non sarebbe iniuria datum e perciò la costrizione è mancata, ma essendosi ciononostante raggiunto il risultato, il soggetto è stato comunque indotto alla promessa o alla consegna indebita”.

Si è, poi, sottolineato che “costrizione e induzione trovano un momento comune nella strumentalizzazione della qualifica o dei poteri, normativamente ricostruita in termini assolutamente identici:

è l’abuso che costituisce la ragione della dazione o della promessa indebita sia nella concussione che nella induzione e che al contempo, come si è detto, finisce per rappresentare, oggi come allora, la linea di demarcazione tra le posizioni nelle quali la volontà del privato, comunque sottoposta ad una pressione, risulta viziata nel suo determinarsi – ambito cui vanno ricondotte sia le condotte di concussione che quelle di induzione ex art. 319 quater – da quelle, affini perchè comunque legate a momenti relazionali (l’istigazione alla corruzione e la corruzione), nelle quali la formazione del volere in capo al privato rimane sostanzialmente insensibile rispetto al ruolo ed al contegno del soggetto pubblico, potendo la strumentalizzazione del potere o della qualità al più valere da mero spunto di una trattativa paritaria, destinata a sfociare in un sostanziale illecito accordo negoziale”.

E, tuttavia – si è aggiunto – la distinzione tra la concussione e l’induzione non può basarsi su criteri molto indeterminati, quali “l’intensità della strumentalizzazione dei poteri e la qualità una diversa gradazione della coazione”: “piuttosto, l’interpretazione che assegna all’art. 317 c.p., l’ambito della minaccia in senso tecnico e all’altra norma ogni altra prospettazione di danno, corrisponde anche ad un razionale assetto dei valori in gioco che non può essere trascurato. Sotto l’aspetto assiologico è comprensibile perchè chi prospetti un male ingiusto è punibile più gravemente di chi prospetti un danno che derivi dalla legge. E ancora e soprattutto si veste di ragionevolezza prevedere in quest’ultimo caso la punizione di chi aderisce alla violazione della legge per un suo tornaconto.

Viceversa, punire chi si sia piegato alla minaccia, ancorchè essa si sia presentata in forma blanda, significa richiedere al soggetto virtù civiche ispirate a concezioni di stato etico proprie di ordinamenti che si volgono verso concezioni antisolidaristiche e illiberali”.

Nella medesima scia giurisprudenziale si inseriscono altre pronunce, tutte recanti, talora con alcune minime varianti, una motivazione di analogo tenore (Sez. 6, n. 16566 del 26/02/2013, Caboni, Rv. 254624;

Sez. 6, n. 6578 del 25/01/2013, Piacentini, Rv. 254544; Sez. 6, n. 17593 del 14/01/2013, Marino, Rv. 254622; Sez. 6, Sentenza n. 7495/13 del 03/12/2012, Gori, Rv. 254021): tra le quali va segnalata quella in cui, riproponendo lo stesso percorso argomentativo, si è pure posto in risalto l’effetto pratico derivante dalla scelta del legislatore della novella del 2012 di riservare la configurabilità del delitto di concussione al solo pubblico ufficiale. Ed infatti, “sia il pubblico ufficiale che l’incaricato di pubblico servizio, possono essere gli autori del reato di induzione indebita di cui all’art. 319 quater c.p.. Non sembra che possa dubitarsi che la condotta dell’incaricato di pubblico servizio che abbia le caratteristiche della concussione rientri oggi nel reato di estorsione quando la sua condotta consista nella minaccia di un male ingiusto (…), minaccia resa possibile dall’abuso della posizione.

Quindi si può affermare che l’incaricato di pubblico servizio risponde del reato di cui all’art. 319 quater c.p. solo quando la sua condotta non integri estorsione, in quanto nell’art. 319 quater vi è la clausola di riserva “salvo che il fatto costituisca più grave reato”; ed il reato di estorsione è più grave. La necessaria conclusione è nel senso che il reato di induzione indebita non può avere un ambito di applicazione più ampio quando ne sia responsabile il pubblico ufficiale rispetto al caso in cui lo commetta l’incaricato di pubblico servizio. A ritenere il contrario, se cioè l’estorsione avesse un ambito più ampio e non corrispondente alla concussione, avremmo incomprensibili disparità nel trattamento di identiche condotte. Se, infatti, la “costrizione” non dovesse avere un ambito corrispondente alla “minaccia” dell’estorsione e, quindi, nel concetto di “induzione” rientrassero anche (de)i casi di minaccia in senso proprio, pur se caratterizzati da minor gravità, innanzitutto vi sarebbero condotte che, se commesse dal pubblico ufficiale, sarebbero punite meno gravemente che se commesse dall’incaricato di pubblico servizio. (…) Inoltre, e questa sarebbe una conseguenza ancor più anomala, il privato vedrebbe la propria condotta in un caso valutata come di vittima di una estorsione e nell’altro di responsabile del reato di cui all’art. 319 quater c.p..

Ma sarebbe del tutto irragionevole differenziare così fortemente le conseguenze della sua condotta a seconda se abbia ceduto alle pressioni di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio…” (Sez. 6, n. 13047 del 25/02/2013, Piccinno, Rv. 254466).

3.3. Vi è, infine, un terzo filone giurisprudenziale, per così dire intermedio, che, partendo dalle premesse formulate dal primo degli appena indicati indirizzi, finisce per proporre una soluzione interpretativa che si avvicina a quella formulata dal secondo orientamento.

Seguendo questa diversa ottica, si è asserito che la induzione, richiesta per la realizzazione del delitto previsto dall’art. 319 quater c.p. (così come introdotto dalla L. n. 190 del 2012, art. 1, comma 75), necessita di una pressione psichica posta in essere dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio che si caratterizza, a differenza della costrizione, che integra il delitto di concussione di cui all’art. 317 c.p., per la conservazione, da parte del destinatario di essa, di un significativo margine di autodeterminazione o perchè la pretesa gli è stata rivolta con un’aggressione più tenue e/o in maniera solo suggestiva ovvero perchè egli è interessato a soddisfare la pretesa del pubblico ufficiale, per conseguire un indebito beneficio (così Sez. 6, n. 11794 del 11/02/2013, Melfi, Rv. 254440; conf., in seguito, Sez. 6, n. 11944 del 25/02/2013, De Gregorio, Rv. 254446).

Più in dettaglio si è chiarito che “la circostanza che il legislatore della novella del 2012, nello “sdoppiare” le fattispecie di reato, abbia riproposto, rispettivamente nella nuova versione dell’art. 317 e nell’art. 319 quater, comma 1, formulazioni testuali sostanzialmente identiche, nelle quali l’unico dato di distinzione è, appunto, quello del verbo (“costringe” nel primo caso, “induce” nel secondo), costituisce un dato letterale che induce a ritenere che la voluntas legis sia stata nel senso di attribuire una qual continuità normativa rispetto alla disposizione incriminatrice precedentemente vigente: con la conseguenza che appare possibile tentare di valorizzare gli approdi ermeneutici cui era pervenuta la giurisprudenza di legittimità che, pur nella già ricordata sostanziale indifferenza pratica, aveva cercato di tracciare una “linea di confine” tra la condotta costrittiva e quella induttiva” (…) Da questo punto di vista dovrebbe escludersi che le modifiche introdotte dalla L. n. 190 del 2012 abbiano comportato una riqualificazione delle due condotte di “costrizione” e di “induzione”, formule lessicali che appaiono entrambe capaci di indicare sia la condotta che l’effetto: come anche suggerisce il nettamente differenziato trattamento sanzionatorio, la prima descrive una più netta iniziativa finalizzata alla coartazione psichica dell’altrui volontà, che pone l’interlocutore di fronte ad un aut- aut ed ha l’effetto di obbligare questi a dare o promettere, sottomettendosi alla volontà dell’agente (voluit quia coactus); la seconda una più tenue azione di pressione psichica sull’altrui volontà, che spesso si concretizza in forme di persuasione o di suggestione, ed ha come effetto quello di condizionare ovvero di “spingere” taluno a dare o promettere, ugualmente soddisfacendo i desiderata dell’agente (coactus tamen voluit)”.

E però, “bisogna riconoscere come la distinzione tra i concetti di costrizione e di induzione basata esclusivamente sull’intensità della pressione ovvero sul maggiore o minore grado di coartazione morale nel destinatario della pretesa, ha creato in passato non poche difficoltà interpretative – talvolta tradottesi in una tendenza a dilatare la portata applicativa della previgente disposizione codicistica della concussione, a scapito della complementare fattispecie di corruzione – che hanno portato la dottrina a dubitare della legittimità costituzionale di una norma, quella contenuta nel precedente art. 317 c.p., apparentemente carente dei requisiti di tassatività nella descrizione della condotta. Ancora oggi, in un contesto normativo mutato con la previsione della punibilità dell’indotto e con la esclusione della sanzionabilità del concusso, può risultare difficoltoso distinguere una condotta di costrizione da una di induzione laddove la pretesa sia fatta valere con modalità subdole o larvate (ovvero sia formulata con contenuti artatamente imprecisati), tanto da sembrare una forma di blanda pressione psichica, ma capace di integrare una situazione di sostanziale costrizione implicita. In altri termini, non sempre è possibile differenziare nettamente una induzione da una costrizione in base all’intensità della pressione esercitata dal pubblico agente ed al grado di condizionamento dell’interlocutore, in quanto vi sono situazioni “al limite” nelle quali è difficile distinguere il caso del privato che, anche in ragione della prospettazione apertis verbis di un male ingiusto, si trova nello stato psicologico di chi è conscio di soccombere ad un sopruso, da quello del privato che, destinatario di una pretesa avanzata in forma indeterminata, semmai caricata di significati da supposizioni personali dell’interessato, paventa solamente di poter patire un possibile futuro sopruso. (…) Vi è una rilevante e specifica ragione di natura logico-sistematica che suggerisce di integrare il “tradizionale” criterio discretivo legato alla forma di pressione ed al grado di condizionamento psichico nel suo destinatario, con un elemento obiettivo che può servire a dare ai due concetti in esame un tasso di maggiore determinatezza. Ragione evidentemente legata alla già considerata novità della incriminazione – sia pur con la previsione di una pena più mite rispetto a quella stabilita per il pubblico funzionario – di colui che, destinatario della induzione indebita, si sia determinato a dare o a promettere denaro o altra utilità, giusta la statuizione dell’art. 319 quater c.p., comma 2: la posizione di tale soggetto, non più vittima ma coautore del reato, è chiaramente diversa da quella del destinatario della pretesa concussiva, che, nel reato di cui al riscritto art. 317, resta mera persona offesa (al pari della vittima della estorsione, pure configurabile, come si è accennato, laddove la minaccia sia riferibile ad una iniziativa abusiva non di un pubblico ufficiale, bensì di un incaricato di un pubblico servizio), ed impone oggi di ricercare un elemento ulteriore idoneo a favorire una più netta differenziazione tra i concetti di costrizione e di induzione. (…) Tale indice integrativo è ragionevolmente rappresentato dal tipo di vantaggio che il destinatario della pretesa indebita consegue per effetto della dazione o della promessa di denaro o di altra utilità. Egli è certamente persona offesa di una concussione per costrizione se il pubblico agente, pur senza l’impiego di brutali forme di minaccia psichica diretta, lo ha posto di fronte all’alternativa “secca” di accettare la pretesa indebita oppure di subire un pregiudizio oggettivamente ingiusto: al destinatario della richiesta non è lasciato, in concreto, alcun apprezzabile margine di scelta, ed egli è solo vittima del reato perchè, lungi dall’essere motivato da un interesse al conseguimento di un qualche vantaggio diretto, si determina a dare o promettere esclusivamente per evitare il pregiudizio minacciato (certat de damno vitando). Al contrario, il privato è punibile come coautore nel reato se il pubblico agente, abusando della sua qualità o del suo potere, formula una richiesta di dazione o di promessa ponendola come condizione per il mancato compimento di un atto doveroso (ipotesi nella quale, perciò, il pubblico agente minaccia un male formalmente “giusto”: si pensi al pubblico funzionario che accerta l’esistenza di una irregolarità e che comunichi o faccia comprendere al privato che “chiuderà un occhio” se verrà soddisfatta la sua pretesa), o come condizione per il compimento di un atto a contenuto discrezionale con effetti favorevoli per l’interessato (si pensi al pubblico funzionario che non si limiti a prospettare il mancato compimento di un atto richiesto dal privato, ma ponga l’omissione come alternativa al compimento di un atto contrario ai propri doveri d’ufficio, idoneo a porre il destinatario in una situazione più favorevole rispetto ad altri privati titolari di interessi “concorrenti”): mancato compimento di un atto doveroso nel primo caso, o compimento di un atto discrezionale nel secondo, da cui il destinatario della pretesa trae, perciò, direttamente un vantaggio indebito. In siffatte situazioni è possibile sostenere – prendendo a prestito una efficace metafora proposta in dottrina – che il pubblico funzionario “non si limita ad agitare il “bastone” del male ingiusto, secondo gli stilemi classici della concussione, ma tende anche la “carota” del beneficio indebito, quale conseguenza del pagamento illecito”: l’agente pubblico prospetta, in pratica, l’alternativa tra un pregiudizio ed un vantaggio indebito, con la conseguenza che il privato che paga o promette non è persona offesa, ma compartecipe in quanto conserva un significativo margine di autodeterminazione e perchè, indipendentemente dalla forma in cui si è manifestata la richiesta del pubblico funzionario, egli viene “allettato” a soddisfare la pretesa dalla possibilità di conseguire un indebito beneficio, il cui perseguimento finisce per diventare la ragione principale o prevalente della sua decisione (certat de lucro captando)”.

Si è, altresì, notato che “questa impostazione, più articolata rispetto a quella fondata esclusivamente sulla verifica “soggettivizzante” del diverso grado di pressione morale, appare coerente alla nuova collocazione che, nel codice, è stata data alla figura dell’induzione indebita, come “plasticamente” confermato dalla scelta di introduzione dell’art. 319 quater subito dopo gli articoli disciplinanti le due forme di corruzione – al cui alveo sembra maggiormente avvicinarsi – e non anche dopo l’articolo sulla concussione. Ed invero, nel reato di induzione indebita il destinatario della pretesa soffre, al pari della vittima della concussione, l’abusiva iniziativa prevaricatrice del pubblico agente, dalla quale la sua volontà risulta psichicamente condizionata (che, altrimenti, laddove tra i prevenuti vi fosse una posizione di piena parità e le loro scelte fossero lasciate alla libera contrattazione, si dovrebbe passare nell’ambito di operatività di una delle figure corruttive…); ma, al pari del corruttore, risponde penalmente della sua condotta, per aver dato o promesso denaro o altra utilità, perchè ha subito una più tenue pretesa intimidatoria, alla quale, senza eccessivi sforzi, avrebbe potuto resistere, ovvero perchè da quella dazione o promessa ha tratto o ha sperato di trarre un vantaggio non dovutogli, al cui conseguimento, in una logica quasi “negoziale”, ha finito per parametrare la sua decisione.” (così Sez. 6, n. 11794 del 11/02/2013, Melfi, cit; conf. anche la più recente Sez. 6, R.G. n. 30434/12 del 08/05/2013, Milanesi, non ancora massimata, riguardante un caso nel quale è stata qualificata in termini di tentata concussione per costrizione la condotta del pubblico ufficiale che, senza indicare l’esercizio lecito di alcun potere ovvero il compimento di uno specifico atto doveroso, aveva minacciato alla destinataria, con modalità molto dirette, un generico male ingiusto derivante dall’esercizio contra ius dei poteri riconosciutigli in ragione della pubblica funzione esercitata, senza che fosse stata anche solo prospettata la possibilità del conseguimento di un qualche indebito vantaggio da parte della vittima).

3.4. Sussiste, dunque, un contrasto giurisprudenziale che, ai sensi dell’art. 618 c.p.p.., giustifica la rimessione dei ricorsi alle Sezioni Unite di questa Corte, chiamata a decidere la seguente questione: “quali siano i presupposti di applicabilità degli artt. 317 e 319 quater c.p. (come rispettivamente sostituito ed introdotto dalla L. 6 novembre 2012, n. 190, contenente “Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e della illegalità nella pubblica amministrazione”) e quali gli elementi di distinzione delle relative fattispecie incriminatrici”.

E’ di tutta evidenza, peraltro, come privilegiare una o l’altra delle tre indicate opzioni esegetiche potrebbe influire sulla definizione della connessa questione di diritto intertemporale, se, a seguito della entrata in vigore della novella del 2012 sia ipotizzabile, con riferimento alle norme dei due appena considerati articoli, una qualche forma di abolitici criminis ai sensi dell’art. 2 c.p., comma 2, ovvero un mero fenomeno di successione di leggi penali nel tempo regolato dall’art. 2 c.p., comma 4. Questione che, fatta eccezione che per le perplessità manifestate in alcune pronunce (così, ad esempio, in Sez. 6, n. 8695/13 del 04/12/2012, Nardi, cit.), al momento la giurisprudenza di legittimità pare orientata a risolvere nel senso della esistenza di una continuità normativa tra la previgente e la nuova disciplina codicistica (sul punto cfr., tra le altre, Sez. 6, n. 12388 del 11/02/2013, Sarno, Rv. 254441; Sez. 6, n. 11792 del 11/02/2013, Castelluzzo, Rv. 254437; Sez. 6, n. 17285 del 11/01/2013, Vaccaro e Ammirata, ancora non mass.; Sez. 6, n. 3251 del 03/12/2012, Roscia, Rv. 253935).

5. Reputa questo Collegio che ragioni di opportunità impongano la rimessione alle Sezioni Unite di tutti e nove i ricorsi in oggetto, compresi quelli presentati nell’interesse degli imputati Mu. e T., chiamati a rispondere della commissione dei reati di corruzione propria, loro rispettivamente contestati ai capi F), G) ed H) dell’imputazione, apparentemente estranei alla questione di diritto innanzi delineata.

Va, tuttavia, rilevato che del delitto sub capo F) è stato chiamato a rispondere in concorso anche l’odierno ricorrente G. G., cui sono stati contestati anche tre episodi di tentata concussione, posti in continuazione con la corruzione; e che i motivi formulati da altri ricorrenti, finalizzati ad ottenere una possibile riqualificazione in termini di corruzione di fatti contestati come concussioni, rende necessaria una lettura unitaria dei nove atti di impugnazione.

6. E’ appena il caso di aggiungere che la rimessione dei ricorsi alle Sezioni Unite non pregiudica in alcun modo l’esercizio delle facoltà difensive da parte dei patrocinatori, oggi assenti, degli imputati G. e T., i quali avevano avanzato fuori udienze richieste di rinvio del presente processo per asseriti concomitanti impegni difensivi: istanze che, in ogni caso, non supportate da adeguata documentazione giustificativa dei denunciati impedimenti, non sarebbero state meritevoli di positiva considerazione.

P.Q.M.

Rimette i ricorsi alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, il 9 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2013

 

Cassazione penale sez. VI, 09 maggio 2013 (udienza) , n. 20430